Attualità

Il “caso Marche” evidenzia il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione: lo dice un ex “provveditore” [INTERVISTA]

Non si placano le polemiche sul “caso Marche” innescato da una circolare del direttore generale Marco Ugo Filisetti e sul quale il Ministero ha già annunciato una inchiesta interna.
Commentiamo la questione con il professore Mario Maviglia, ex dirigente tecnico dell’USR Lombardia (negli ultimi anni ha diretto l’ufficio scolastico provinciale di Brescia).

Partiamo intanto da una analisi del testo. Lei cosa ne pensa?

Francamente a me pare che espressioni come quelle contenute nella nota del direttore regionale delle Marche (“Per questo quello che siamo e saremo lo dobbiamo anche a Loro e per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: PRESENTE!”), possano andar bene in un racconto dannunziano o interventista, un po’ meno in una comunicazione di un Ufficio pubblico della Repubblica Italiana del 2020.

Diciamo che forse Filisetti si è lasciato trasportare dall’impeto retorico…

Il DG Filisetti usa toni di esaltazione della guerra per ricordare i Caduti della Prima Guerra Mondiale, riprendendo, peraltro, un discorso tenuto da Mussolini il 23 marzo 1919 (come nota Repubblica on line) in cui il Duce diceva “L’adunata rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d’Italia che sono caduti per la grandezza della Patria…”; Filisetti nella sua nota scrive: “In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria…”.

La sua analisi è piuttosto severa…

Guardi, il grido “PRESENTE!” era tipico delle camicie nere quando salutavano i camerati caduti durante i saccheggi e le devastazioni squadristiche. Se ne trova una eco a pagina 624 del recente romanzo di Antonio Scurati, M. L’uomo della provvidenza, “…migliaia di gagliardetti con i nomi dei caduti…Benito Mussolini si avvicina. Legge. Trasalisce. PRESENTE! PRESENTE! PRESENTE!…”

Va bene, ma tutto questo cosa significa?

La questione è molto semplice: un dirigente pubblico può anche coltivare sentimenti da guerrafondaio o essere di fede fascista, ma nel momento in un cui ricopre un incarico pubblico, di rango addirittura dirigenziale, non può trascurare il fatto che la nostra Costituzione “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11) e vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (XII disposizione transitoria).
Questi principi costituzionali possono non essere condivisi, nella propria sfera privata, ma le Amministrazioni pubbliche sono tenute a conformarvisi e il dirigente non può esimersi dal rispettarli, proprio perché svolge una funzione pubblica e, in quanto dirigente, determina la volontà dell’apparato burocratico che dirige.

Lei pensa che questo modo di operare nasconda una visione distorta della pubblica amministrazione?

Mi sembra che più che di visione distorta si debba parlare di concezione personalistica del potere e del bene pubblico.

Cioè?

In altre parole, la funzione dirigenziale viene piegata ai propri fini personali, poco importa che questi siano di carattere materiale o ideologico. In fondo, da un punto di vista meramente etico-comportamentale, tra il dirigente che ruba soldi pubblici e colui che strumentalizza in senso ideologico l’Ufficio che dirige non c’è alcuna differenza: entrambi concepiscono il servizio pubblico come una loro proprietà, un bene di cui possono disporre a piacimento.

Quale dovrebbe essere invece il corretto comportamento di un dirigente pubblico?

Il dirigente dovrebbe sempre avere ben chiari i presupposti e gli effetti degli atti che firma o intende firmare: il presupposto di fondo è che l’atto o la comunicazione si collochi all’interno del perimetro giuridico tracciato dalle norme e che non debordi da tale perimetro (soprattutto per quanto riguarda gli atti di carattere discrezionale); in secondo luogo occorre sempre chiedersi quali sono gli effetti che produce un atto o una comunicazione sugli interessati. Proprio perché l’atto/comunicazione non è un prodotto intimo o personale del dirigente responsabile, ma una manifestazione di tipo istituzionale, il registro comunicativo deve necessariamente seguire le regole della comunicazione istituzionale. Non è solo questione di etichetta protocollare, ma di rispetto nei confronti dell’istituzione di cui si è a capo, istituzione che è sicuramente “casa” del dirigente, come lo è di tutti i cittadini.

Ma perché accadono questi episodi?

Queste manifestazioni prendono piede in quanto l’Amministrazione non assolve fino in fondo e in modo puntuale la propria funzione di controllo dei comportamenti devianti dei propri dirigenti. Anzi, l’Italia è uno dei pochi Paesi avanzati dove di solito i dirigenti non pagano per le loro colpe. In questo contesto istituzionale così labile e sfilacciato ognuno può sentirsi autorizzato ad esternare le proprie contorsioni ideologiche e mentali contando su una sicura impunità.

Reginaldo Palermo

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