Forse qualcuno si è meravigliato nel sentire con quanta tranquillità il noto scrittore Tahar Ben Jelloun abbia pronunciato, in una recente trasmissione televisiva, la frase: “la Francia è un Paese laico, l’Italia no”. I non molti che hanno un’idea abbastanza chiara della nostra Costituzione avranno pensato all’articolo 7 e all’articolo 8 (“…lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, “…tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”) e, di certo, saranno andati con la mente a cercar soccorso nel bellissimo e quanto mai disatteso (sempre più disatteso, sempre più ignorato) articolo 3, che vale la pena citare per intero a vergogna perenne dei nostri governanti attuali: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
I recenti fatti di Rozzano dimostrano però inequivocabilmente che Tahar Ben Jelloun ha ragione: l’Italia non è uno Stato laico. A Rozzano un dirigente scolastico ha fatto slittare il saggio musicale natalizio al 21 gennaio, trasformando la festa di Natale in una “Festa d’inverno”. Ci informa più dettagliatamente un articolo de “Il Giorno”: “Quest’anno un paio di genitori ha chiesto al preside di inserire anche canti più propriamente religiosi come “Tu scendi dalle stelle”, “Adeste fideles” e “Stille Nacht”. La risposta del dirigente scolastico è stata un secco “no”in nome della laicità della scuola pubblica.”
La festa d’Inverno prevede invece filastrocche di Gianni Rodari e canzoni di Sergio Endrigo, così afferma la vicepreside. Attenzione: la scuola di Rozzano, prima di questa audace decisione, ne aveva presa un’altra della stessa risma: quella di togliere il crocifisso dalle aule. Spiega, moderatamente, sempre la vicepreside: “In due aule i crocifissi c’erano e nelle altre no. La decisione del Consiglio di Istituto è stata quella di uniformare e togliere i crocifissi che c’erano”. Decisioni, sembrerebbe, di poco conto e prese in nome della laicità della scuola pubblica. Qui sta il problema: il dirigente scolastico dell’istituto scolastico comprensivo “Garofani”, dottor Parma, si è dimenticato che l’Italia non è uno Stato laico. Queste le reazioni del mondo politico: “È giusto che il preside di Rozzano si sia dimesso. Ma non basta. Serve subito ripristinare il concerto di Natale che è stato cancellato da una decisione sciocca e inconcepibile […] Chiedo che al concerto siano presenti sia Matteo Renzi, sia Roberto Maroni per dimostrare che su temi forti non c’è possibilità di negoziazione con chi ci vuole cancellare” (Valentina Aprea, assessore regionale all’Istruzione). “… decisione miope, presa da chi ancora confonde l’inclusione con il quieto vivere” (Ancorché il concetto di “quieto vivere” e di “inclusione” non siano così confondibili, così si esprime Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione) “Il Natale è molto più importante di un preside in cerca di provocazioni. Se pensava di favorire integrazione e convivenza in questo modo, mi pare abbia sbagliato di grosso”. (Matteo Renzi il Giovane, presidente del Consiglio, come sempre va direttamente al punto: il Natale non si tocca!). Ultimo viene Salvini, che propone il licenziamento in tronco del preside (e forse dell’intero collegio docenti, reo di aver tollerato tale dirigente): “Quegli insegnanti e quei presidi che cancellano il Natale, chi cancella il presepe e la storia di Natale non è adatto a fare quel lavoro”. Di certo Salvini avrebbe preferito infliggere al preside, oltre al doveroso licenziamento, anche trenta frustate, ma questi sono i limiti della democrazia che un parlamentare, purtroppo, deve accettare.
Il caso Rozzano è stato montato poi da appositi servizi televisivi, di quelli fatti a colpi di intervista a madri nordafricane, rumene, italiane tutte favorevoli ai canti natalizi. Chissà perché non si è visto nessun padre; è un chiaro esempio di discriminazione sessista, perché le stupidaggini convenzionali (non c’è dubbio alcuno che si tratti di stupidaggini convenzionali) le fanno dire sempre alle donne. Il dottor Parma, preside del “Garofani”, ha commesso un unico errore: quello di aver aderito ad un modello conformistico ormai fuori moda. In compenso tutti gli altri si battono per un conformismo vecchio stile, e in filigrana vediamo affiorare le parole: “valori cristiani”. Del tutto rispettabili, i valori cristiani; ma più rispettabili ancora, in una scuola statale e laica, i valori che ci affratellano in nome della comune appartenenza al genere umano.
Nell’insopportabile fiume di parole che ha fatto seguito agli attentati di Parigi (disgrazia minore dopo lo strazio autentico di tante vite distrutte), più di frequente si sarebbe dovuta ricordare la probabile etimologia della parola “religione”, che deriva da re-ligare (legare insieme) ed è quindi qualcosa che, nel momento in cui lega, esclude. Ed esclude anche nel momento in cui include, poiché ci sarà sempre un “fuori”.
Il caso di Rozzano mette dunque in evidenza la deriva regressiva della nostra classe politica ed anche della nostra società “civile”, pronta a difendere a spada tratta “il Natale” alla faccia della laicità della scuola.
Quanto alle belle tradizioni da mantenere in vita, basterebbe chiedere alle genitrici devote di recitare a memoria il Credo o l’elenco dei sette peccati capitali per scoprire quanto di superficie e di facciata sia la loro religiosità. Non dico di indagare sulla conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento, poiché, essendo il nostro un paese in cui la religione prevalente è cristiano cattolica romana, la pratica diretta dei testi sacri è riservata ai teologi. Se dunque la religiosità di chi protesta per l’abolizione dei canti natalizi non fosse di facciata, nessuno si sarebbe azzardato in una scuola con un’alta percentuale di bambini stranieri a proterve proteste, volte ad inserire di forza “Tu scendi dalle stelle”; quanto spirito cristiano ci sia poi nella linea Aprea-Renzi-Salvini lo giudichino i lettori.
Ed infine guardiamoci intorno e chiediamo ai nostri bambini di descrivere, con parole loro, cosa sia il Natale, quel Natale fatto di luci nella città, di vetrine addobbate, di panettoni nei supermercati pronti ad essere sostituiti dalle colombe pasquali.
La conclusione la affido ad una bambina d’altri tempi, la figlia di Giovanni Guareschi, detta la Pasionaria. In un brano mirabile, l’autore delle storie di Don Camillo e Peppone descrive uno dei più nefasti riti natalizi, la recita della poesia imposta ai più piccoli prima del pranzo natalizio. Altri tempi: infatti il racconto si intitola “Fu a Natale, nel 1947”. La trama: la Pasionaria ed Albertino, figli di Giovannino e Margherita, debbono imparare la poesia di Natale, sotto la guida della mamma (la mamma, non la maestra). La Pasionaria detesta la sua poesia; così, proditoriamente, al momento del pranzo di Natale, si alza in piedi prima di Albertino e recita, con successo, la poesia del povero fratello, meritandosi un bel “Caina!” da parte della madre. Albertino scoppia in lacrime, ma poi ci ripensa, e recita la poesia della Pasionaria, con bella riconciliazione finale.
Di mezzo, c’è questo passo, uno dei punti più alti della nostra letteratura civile del Novecento: “Rincasando, un giorno del dicembre scorso, la portinaia si sporse dall’uscio della portineria e mi disse sarcastica: “È Natale, è Natale – è la festa dei bambini – è un emporio generale – di trastulli e zuccherini!” “Ecco”, dissi tra me, “Margherita deve aver cominciato ad insegnare la poesia di Natale ai bambini”. Arrivato davanti alla porta di casa mia, sentii appunto la voce di Margherita: “È Natale, è Natale – è la festa dei bambini!…” “È la festa dei cretini!” rispose calma la Pasionaria. Poi sentii urla miste e mi decisi a suonare il campanello”.
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