Ci sveglieremo un giorno, speriamo molto presto, che saremo usciti finalmente da questa emergenza legata al Covid 19 e ci ritroveremo in una società sicuramente più digitale di quella pre-corona virus.
Ci ritroveremo a lavorare da casa senza doverci vergognare perché sarà diventata la normalità anche senza emergenza sanitaria.
I ragazzi non useranno solo i libri cartacei ma i docenti complementeranno la didattica anche facendo vedere dei video su Youtube usando il tablet o il pc in classe.
Tutti saremo più bravi a fare spesa on line, scoprendone i vantaggi e il risparmio di tempo.
Nei negozi ci saranno accortezze e spazi che prima non esistevano.
Non sarà più come prima sentiamo dire da Sociologi e Psicologi. Ma cosa cambierà veramente nel nostro quotidiano?
Vanno oramai di moda termini inglesi quali smart working e eLearning, ma in realtà ciò di cui si parla è “lavoro da casa” , per il quale si potrebbe utilizzare il vecchio termine telelavoro, e “didattica da casa” a cui si è ancor più costretti per necessità.
Il significato reale che c’è dietro la parola Smart è quello di semplice, di flessibile, di dinamico; esatto contrario di costrizione e forzatura come quella che stiamo vivendo in questi giorni.
E affinché il lavoro e la didattica siano davvero flessibili ed “intelligenti” bisognerebbe rivedere e riprogettare tutti i modelli sociali, le nostre città dovrebbero essere smart e anche le nostre case, scuole, uffici.
Da anni si parla di città “intelligenti”, di sensori, ad esempio, in grado di automatizzare i semafori, di individuare un parcheggio libero, di allargare le corsie in caso di traffico, di rendere le grandi metropoli più vivibili e flessibili alle esigenze dei cittadini.
Le nostre case dovrebbero essere costruite per lavorare e per studiare da remoto con spazi adibiti allo scopo, connettività a larga banda, strumenti e tavoli da lavoro confortevoli dedicati ed adatti per stare tante ore davanti ad un pc.
Serve dunque una struttura “digitale” che parta dalla società pubblica (per intenderci processi, servizi della PA) al contesto in cui viviamo (le città, le infrastrutture, le abitazioni, gli uffici), alle scuole.
In questo periodo tutti gli insegnanti hanno messo in atto con dedizione e coraggio strategie per dare continuità alla didattica, mentre gli animatori digitali si sono impegnati per trovare la migliore piattaforma on line da fornire ai colleghi e ai ragazzi.
Con scene tipo quelle che i docenti hanno dato il proprio numero agli studenti impensabili solo qualche settimana fa.
Più che un passaggio al digitale si è trattato di un “immersione al digitale” con evidenti rischi di annegamento, per la serie “ti butto in mare cosi impari subito a nuotare”.
Oggi insegnanti e studenti usano il digitale per necessità ma entrambi sono consapevoli di una idea di scuola che non sarà più la stessa.
Vuoi per le distanze sociali che andranno rispettate, vuoi per nuove abitudini che rimarranno dentro di noi, vuoi per la paura al nuovo e al digitale che nel frattempo sarà andata via come quando hai capito che se impari a reggerti a galla non affoghi più.
Forse si capirà che il modello in cui i pc rimangono spenti nei laboratori i cellulari nello zaino, il docente spiega e gli alunni ascoltano sarà ormai superato dopo questo infausto periodo.
Un modello spesso sposato dagli stessi genitori perché mette tranquillità ed alza le barriere dell’innovazione educativa, contro il “moral panic” cioè l’ansia sociale sugli effetti del digitale sui giovani.
Dobbiamo invece cogliere l’occasione per rivedere la scuola digitale come un nuovo modello di fare formazione e per far questo serve l’impegno da parte di tutti gli attori in gioco, politica, governo, docenti, famiglie e studenti. Dopo aver imparato a rimanere a galla, abbiamo l’opportunità di imparare bene tutti gli stili per nuotare bene in tutte le acque.
Modello sociale, città, abitazioni, scuola. Se non ripensiamo a nuovi modelli l’opportunità di trasformazione nata da questo periodo “forzato” sarà stato completamente inutile.