Sono un’insegnante di scuola secondaria superiore, insegno da quasi 30 anni e, pur utilizzando da sempre strumenti digitali per la didattica, non ho profili sui social (solo uno su Twitter ma inutilizzato). Solo da qualche tempo il mio istituto utilizza i social perché attivati per un progetto digitale del Ministero. Mi sono accorta di un divario enorme tra quello che è la scuola e quello che appare essere, soprattutto sui social e sui giornali.
Il divario si è creato a mio parere perché la maggioranza dei docenti ha investito le proprie energie nel “fare” e non nel “comunicare” ciò che fa.
Da tempo immemorabile visitiamo con i nostri studenti città d’arte, musei (anche gli Uffizi), parliamo di attualità, di storia (anche della Shoah, con visite di istruzione ai luoghi della memoria), progettiamo attività per interpretare in modo critico la realtà, collaboriamo con le famiglie per sostenere i ragazzi nel loro percorso di crescita umana e culturale. Solo perché non lo comunichiamo non significa che tutto ciò non esista o che i nostri studenti siano solo ciò che appaiono e che lasciano trasparire scrivendo post sui social.
Gli adolescenti non sono una massa di follower che vanno “portati” in modo inconsapevole agli Uffizi o al Museo della Shoah, perché scuola e genitori hanno fallito, come molti hanno scritto. Genitori e scuola ci sono, collaborano ma non hanno tempo di scrivere post che lo rendano visibile sui social e per l’opinione pubblica.
Non ci serve un pifferaio magico che porti i nostri ragazzi in luoghi artistici e della memoria a fare selfie; dovremmo ricordarci tutti come andò a finire la leggenda di Hamelin.
Ci servono persone reali e profonde che, incontrando i ragazzi, trasmettano loro il valore di ciò che vedono, perché nella vita vogliano essere e non soltanto apparire.
Rossella Garofani