I lettori ci scrivono

Il docente, il vero beneficiario della didattica a distanza

Quest’anno ho affrontato l’esperienza della DAD sia come docente sia come madre di tre figli in diverse fasce d’età e, dalle elementari  alle medie, dal liceo al Cpia in cui insegno, ho avuto la possibilità di visionare un quadro, se non completo, abbastanza significativo della didattica a distanza.

Dal materiale, dagli stimoli, dalle confidenze ricevute,  è risultato evidente che la DAD funziona soltanto in alcuni casi per i quali questa è effettivamente una risorsa;mi riferisco in particolare  allo studente che, già in classe e in presenza, predilige un approccio didattico -trasmissivo, allo studente dropout , specie se vittima di bullismo o in situazione psicologica che influisce sulla regolare frequenza, in presenza,dell’anno scolastico, o allo studente adulto e motivato.

Piace anche, e qui mi dispiace segnalarlo, alle mamme onnipresenti, a quelle che- non lavorando ma avendo studiato- specie nel caso dei licei, possono permettersi di assistere alla lezione dei figli (nascoste a lato della videocamera o sotto la scrivania del pupillo) e suggerir loro abilmente le risposte. La DAD è dunque amata da queste categorie di stakeholders proprio perché pone al centro della lezione il professore e non l’alunno ergo l’alunno  non entra in crisi.

Nonostante gli sfottò sugli imbuti, la ministra Azzolina ha ragione quando richiama i docenti segnalando loro che, in una situazione così complessa, non ci si può limitare a pretendere il mero e rassicurante  nozionismo, magari verificato su google moduli ( il mio professore di latino e greco ce lo ribadiva già allora: totus grammaticus, totus asinus) senza alcuna possibilità di sviluppare un vero dibattito perché zoom rei!

Del resto il professore che deve fare? Si è trovato a operare in questa condizione per la prima volta, a masticare webinar su webinar, che cosa si può chiedere di più a questo strano essere analogico intrappolato a forza nella rete? Travasa conoscenze  in un’ora  che zoppica tra problemi di connessione reali o inventati ad hoc dagli allievi più lazzaroni.

Già! Però forse questo mondo digitale a noi prof. un po’ narcisisti, non dispiace neanche troppo,cominciamo a gustarcelo.

Ma…attenzione! Vi è una categoria di allievi che soffre questa tipologia di insegnamento! Non mi riferisco soltanto a coloro che presentano disturbi di attenzione ma anche a coloro che- essendo adolescenti in cerca di conferme- hanno bisogno di sentirsi parte attiva, addirittura presenza provocatoria, dell’ambiente classe:  costoro non identificano la scuola nella figura dell’insegnante che, dallo schermo, appare  magnetico e possente, ma nell’insieme delle relazioni, delle puzze, dei corteggiamenti dei compagni fisici e non virtuali.

Non è un caso che questi/e ragazzini/e, a fronte di 5/6 ore di attenzione sul tablet o sullo schermo, e di una richiesta continua di compiti-somministrati in maniera tradizionale attraverso il mezzo digitale- abbiano, nel corso dei mesi, compromesso  profitto e  motivazione scolastica.

Si sta creando, nell’esaltazione della DAD, un fenomeno che definirei sindrome da burnout dello studente, ovvero la sindrome da stress che, prima del Covid 19, non colpiva certo gli studenti ma gli insegnanti e le professioni d’aiuto!

I sintomi sono evidenti:

  • deterioramento dell’impegno scolastico;
  • distaccamento dalle emozioni legate alla scuola:
  • disinteresse per il tipo di lavoro proposto e crisi d”ansia .

Non tutti gli insegnanti, non tutte le scuole sembrano accorgersi di un fenomeno che io reputo allarmante .

Perché tanta noncuranza?

Perché, diciamocelo chiaramente, lavorare in modalità DAD è molto più semplice che lavorare all’interno di una classe nella quale, bene o male, occorre non solo tener d’occhio la disciplina ma anche rilevare lo sviluppo emotivo-cognitivo dell’allievo difficile! La DAD è per molti di noi l’occasione di far ciò che, tra un’emergenza e l’altra, non eravamo più abituati a fare: insegnare e non educare!

Con gli allievi a casa questo problema non si pone: la responsabilità dell’attenzione, dell’educazione, della crisi adolescenziale, del teatro in cui agire tale crisi non ricade sul professore ma sul genitore.

E il genitore viene investito, suo malgrado, del triplice ruolo di genitore/insegnante/psicologo.

Non tutte le scuole aiutano il malcapitato a trascinare tale peso, gli atteggiamenti sono variegati (un po’ come quelli delle Regioni al tempo del Coronavirus); le  politiche e le sensibilità nei confronti del benessere degli allievi sono diverse: ci sono quelle inclusive e quelle vindici, quelle che vabenetuttobastaconnettersi e quelle che ilcovidnonhacambiatonullaasinostudia.

Invece il Covid 19 ha cambiato tutto, proprio tutto, invitando i docenti a mettersi in gioco!  Ad imparare l’utilizzo di app divertenti e stimolanti per creare compiti a misura dei nostri bambini e dei nostri ragazzi: ho visto gli uni gioire in  gare di spagnolo o di inglese a distanza, ho visto gli altri, che prima dimostravano ottime capacità di apprendimento, perdere sorriso ed interesse di fronte all’ennesima richiesta di una tabella doc/word di verbi, di paradigmi o di declinazioni.

La didattica a distanza avrebbe potuto essere una grande occasione di inclusione, una bomba emotiva in grado di spezzare schemi rigidi e favorire davvero l’alleanza tra docente e discente, un’alleanza fatta di letture coinvolgenti, di considerazioni sulla realtà semidistopica che tutti ci siamo trovati a vivere.

In alcuni casi invece, nel folle tentativo di portare avanti un programma decontestualizzato e avulso dalla realtà, la didattica ha cambiato nome ma non schema, limitandosi a rendere il video un semplice surrogato della cattedra finalizzato a un unico monolitico obiettivo: la valutazione.

Spero che il corpo docenti possa fare una profonda riflessione su quanto avvenuto nel corso di quest’anno, che abbia l’occasione di condividere le proprie esperienze, di guardarsi dentro e di guardare oltre utilizzando, a seconda dei casi, la modalità didattica preferita dall’allievo; spero sia chiaro che i ragazzi lasciati a febbraio non sono gli stessi che incontreremo a settembre, perché il trauma c’è stato anche se loro, i giovani, si sono curati le ferite di nascosto per non mettere in crisi noi adulti.

Temo invece che, in alcuni contesti, verrà assegnata una marea di insufficienze, una marea di debiti incolmabili nell’estrema  finzione che quest’anno sia stato come gli altri.

Alessandra Giordano

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