Fino a qualche anno fa, una risposta affermativa a questa domanda sarebbe stata scontata.
Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito ad un’ampia proliferazione di procedimenti disciplinari, volti a censurare fatti e comportamenti che hanno a che vedere con il diritto di espressione delle proprie idee (art.21 Cost.).
Particolarmente numerosi sono stati gli interventi in sede disciplinare relativi a post sui vari social o nei gruppi WhatsApp.
Premesso che anche tali canali sono idonei alla commissione di reati contro la dignità e l’onore e premesso comunque che sarebbe opportuno evitare di offendere e/o oltraggiare altre persone con la “tastiera”, appare utile capire fino a che punto la libertà di espressione e di critica possa essere limitata e coartata.
In più di un’occasione, sono stati aperti procedimenti disciplinari nei confronti dei docenti, accusati di aver violato il dovere di fedeltà per aver criticato il Ministero o l’Amministrazione di appartenenza.
Secondo l’Amministrazione datrice di lavoro, così facendo il dipendente andrebbe a ledere l’immagine dell’Amministrazione.
Ma tutto ciò non contrasta con il diritto di esprimere liberamente le proprie idee?
Recentemente, la CEDU ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione.
In un primo caso (CEDU 7 gennaio 2025- causa Pătraşcu), la Corte si è occupata di un cittadino rumeno condannato al risarcimento danni per aver pubblicato sulla propria pagina Facebook una serie di post fortemente critici su una vicenda scandalosa che aveva riguardato la gestione dell’Opera nazionale di Bucarest e soprattutto per non aver vigilato sui commenti pubblicati da terzi.
Per la Corte, la Romania si è resa colpevole della violazione dell’art. 10 CEDU, non avendo garantito il livello minimo di protezione della libertà di espressione dei cittadini richiesto in una società democratica.
In un altro caso, ancora più recente (13 febbraio 2025), la Corte si è occupata di un docente polacco, licenziato per aver scritto su un blog per adulti.
In particolare, la Commissione disciplinare aveva ritenuto l’insegnante responsabile di “una violazione della dignità della professione di insegnante e dei doveri” previsti dalla Carta degli Insegnanti.
La Corte ha affermato che gli insegnanti esercitano una “professione di pubblica fiducia e forniscono un importante servizio pubblico”. In questo contesto, non si può negare che gli insegnanti rappresentano una “figura di autorità” per i loro alunni e che per questa ragione hanno particolari doveri e responsabilità, anche relativamente alle loro attività al di fuori della scuola.
Va però considerato che il docente non era impiegato presso una scuola religiosa e non insegnava religione o etica.
La Corte non ha dunque ravvisato sufficienti ragioni per giustificare il licenziamento, ritenendo che “l’interferenza con il suo diritto alla libertà di espressione” non era proporzionata né “necessaria in una società democratica”.
Come si vede, il confine tra libertà di espressione/diritto alla propria vita privata e dovere di fedeltà e di un’adeguata condotta morale anche al di fuori del luogo di lavoro, è molto labile.
Gli interventi della CEDU sulla questione (e il proliferare di procedimenti disciplinari) sono il segno di una problematica tutt’altro che sopita.
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