Mi capita spesso di temere il seguire un TG o navigare su Internet, perché le notizie sono un messaggio che mi lascia attonito e come refrain consegna una domanda: il ruolo di noi docenti oggi? Abbiamo fallito nella nostra missione se la violenza, in qualsiasi suo manifesto, è ciò che guida la società dei giovani?
Mi si è risposto che la Scuola, nella sua essenza, è formazione, consegna di cultura (con tutto quello che tale parola può contenere e significare), e soprattutto non è un’istituzione genitoriale. Essa può indirizzare, portare il pensiero a pensarsi e pensare, in un quadro etico dove il verbo assoluto è il cŭm (anche se in latino è una proposizione). Condividere (il verbo). Cioè COMUNIONE. La Scuola è ciò che resta, ciò che lascia acceso un barlume su questo mare la cui notte avvolge e nasconde la bellezza dei fondali e quel brillio di un sole che flette sulle acque di questo mare.
Durante una lezione, un po’ fuori dagli schei rituali, nessun cellulare ha squillato, nessuna digitalizzazione sulle tastiere, ma un’attenzione incuriosita (mi verrebbe di dire affamata), per chiudersi con uno studente in lacrime che ha ringraziato perché egli ha ritrovato quella speranza che da tempo aveva smarrito. Sono rimasto di pietra. E lo ho rispettosamente abbracciato, rompendo per un attimo quel divisorio tra docente e studente.
Allora ho compreso e la risposta alla domanda iniziale è stata altra: la Scuola è e deve restare l’unico luogo dove i giovani vanno mossi con la testimonianza. Vanno resi protagonisti. Non basta dare dei messaggi sul senso della vita, non basta consegnare una marea di notizie e informazioni culturali. Bisogna parlare con loro e di loro.
Bisogna continuare ad offrire loro un a versione altra della vita, rendere credibili i valori su cui tutta la storia degli uomini è stata scritta: la scuola, come direbbe Ivano Dionigi, deve fornire «non una cassetta, ma un’intera officina di attrezzi», dinanzi al degradare di parole che sono oggi scivolate in fake news.
La Scuola, a differenza dei politici, che badano al consenso, e ai capitani d’industria, che badano ai bilanci, deve continuare a seminare il solo seme che sa spargere sul campo sociale: il CUM, dove sarà poi il volto di ciascuno a farsi ed essere comunicazione, parola, interpretazione e riconoscimento dell’altro, degli altri “a” noi: cos’è che ci dice il dolore o la gioia, la bellezza o la bruttezza, se non il volto? E con il cŭm, con il rispetto, dobbiamo capire la parola di ciascuno.
E soltanto la Scuola può svolgere il ruolo o il compito per tale comprensione, restando sempre integra nella sua Parola.
Tucidide dice di aver capito lo scoppio della guerra del Peloponneso, perché “avevano cambiato il significato delle parole”. Oggi se ci fosse la parola della politica non ci sarebbe la guerra.
E la risposta alla domanda iniziale continuerà ad essere quel mandato fondato sul giuramento di Ippocrate, in versione docente.
Mario Santoro
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