Come l’antropologo, vogliamo quindi porci una “questione semantica” nell’affrontare il documento La buona scuola, nel tentativo di comprendere la cultura di questa nuova idea di politica scolastica, di comprendere il modo di parlare di questo governo proprio come si farebbe nell’approcciare una cultura straniera, per collegare poi il linguaggio al modo di agire.
Come tutti sanno, le parole si possono classificare in molti modi e le classi semantiche costituiscono un modo per raggruppare le parole sulla base del significato, in base alla similarità di significato che veicolano. Ora, chiunque abbia maturato una seppur minima familiarità con il testo del governo Renzi non potrà non aver notato l’uso ridondante di parole ed espressioni positive che costituiscono dati identificativi del campo semantico che indica il “bene”, l’impiego di un lessico capace di connotare la proposta di cambiamento in modo da farla percepire come unico vettore di salvezza: buona scuola, tanto per cominciare, e poi premiare l’impegno, trasparenza, apertura, burocrazia zero; qualità della democrazia, avanguardia, investimento, innovazione, sviluppo. E ancora, il coraggio di ripensare, rimettersi in cammino, avamposto, rilancio, dignità, fiducia, prospettiva, merito, scatti di competenza, mobilità positiva…e la lista sarebbe davvero lunga se si volesse essere esaustivi.
In realtà, la scelta lessicale è espressione di precise strategie di marketing comunicazionale, il marketing semantico appunto, che si prefigge di creare associazioni mentali strategiche. Le strategie di associazione positiva della comunicazione pubblicitaria ne sono un esempio: basti pensare ad una marca di auto associata al concetto di potenza attraverso un preciso processo di loading semantico. E dal momento che la comunicazione produce processi cognitivi, una scelta accurata delle parole diventa fondamentale, in quanto le parole “giuste” divengono leve strategiche in grado di generare un’immagine positiva del prodotto o del servizio.
Un plauso allora ai redattori de La buona scuola poiché l’immagine positiva che deriva dalla lettura del testo è evidente. I titoli dei capitoli e dei paragrafi sono addirittura definibili “scelte brillanti” come anche la selezione ottenuta attraverso un sapiente uso del grassetto. Titolo e sottotitolo del documento – La buona scuola. Facciamo crescere il paese – sono di una nitidezza cristallina, sintetizzando la trama sulla quale si impernia l’intera costruzione semantica: il carattere negativo della scuola attuale contrapposto alla positività del progetto di riforma. Certo l’immagine positiva generata da queste leve strategiche va sfumando davanti all’occhio competente di un lettore-addetto ai lavori ma per il fruitore medio la strategia va più che a segno.
La buona scuola è quindi testo in cui le parole hanno “peso”, prestandosi a stimolare associazioni mentali positive, in particolare quando vengono impiegate per descrivere il progetto di riforma, a stimolare invece associazioni negative quando le parole descrivono la situazione attuale. È addirittura un testo in cui si afferma a voce alta e si nega in sordina. Dove i docenti sono prima quelli che fanno”il mestiere più nobile e bello”, “aiutano i nostri ragazzi a crescere”, lavorano nella “missione più alta che esista: quella dell’istruzione”, sono “forza propulsiva di cambiamento”. Ma sono anche quelli che preferiscono restare sui sentieri battuti, trincerati nella comfort zone del “si è sempre fatto così”, del “pensare in piccolo”, che vengono continuamente associati a concetti oppositivi al miglioramento, al movimento in ascesa della figura del docente, la quale a volte viene addirittura fatta percepire come incapace di gestire la missione educativa.
La buona scuola è insomma un testo in cui la funzione strumentale del linguaggio appare esaltata: qui la lingua è davvero un utensile, strumento in grado di dare all’uomo la possibilità di trasmettere informazioni finalizzate a produrre mutamenti oggettivi nel suo ambiente… la scuola, nel caso specifico.
Perché? Forse perché lo scopo è quello di raccogliere ed utilizzare lo scarso credito degli insegnanti (anche quello che a volte hanno addirittura ai loro stessi occhi…), di trarre vantaggio dalla fragilità del patto fiduciario che dovrebbe invece saldamente legare scuola e famiglie per operare un colpo di spugna tout court sul servizio di istruzione pubblica, travolgendo purtroppo per ragioni speculative anche le molte cose buone che nella scuola italiana ci sono sempre state e ci sono tuttora.
Così, nonostante lo sforzo “di facciata” per esaltarne la dimensione della positività, nel documento la figura del docente resta sempre nel “mezzo” di ogni sua impresa, sospeso tra spinte positive e fallimenti, a volte addirittura chiuso nel suo errore (quello di “esistere”, nel ruolo o in GAE…).
Non a caso nel testo l’esaltazione del suo nobilissimo compito è sempre minata da una malcelata idea di meritata retrocessione. In viaggio verso la” libertà dal peccato” che La buona scuola prospetta, il docente sembra poter allora scegliere due strade -una lo porterà in cima, l’altra irrimediabilmente a valle, sospeso tra avanzamento e sconfitta- ma più presumibilmente dovrà intraprenderle e subirle entrambe. Non a caso nel documento si afferma: “Ci serve il coraggio di ripensare come motivare e rendere orgogliosi coloro che, ogni giorno, dentro una scuola, aiutano i nostri ragazzi a crescere. O cosa si impara a scuola. O come le nostre scuola sono gestite”. In un passaggio continuo tra esaltazione e svilimento, insomma, tutto è da rifare, scuola e docenti, e su entrambi, tanto per cambiare, “occorre intervenire in maniera radicale”.
Anche noi crediamo- come sottolinea del resto La buona scuola– che “non esistono soluzioni semplici a problemi complessi” ma soprattutto che “per fare la Buona Scuola non basta solo un Governo”, “ci vuole un Paese intero”. E sottolineiamo con piacere quel “solo”.
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