Per essere visionari ci vuole una buona vista, e Venero Girgenti aveva undici decimi, o forse dodici, ché a quel tempo non si andava molto per il sottile e non andavano di moda gli accertamenti: ti tenevi la vista che avevi o l’udito che avevi, e se avevi una sola gamba ti tenevi una sola gamba, senza tanto stare a protestare.
Così quando nacque, in una famiglia di bottai, primo maschio di dieci figli, il 21 maggio 1921, a Belpasso, nel catanese, tutti se ne accorsero molto presto che quel bambino vedeva lontano, dove gli altri neanche guardavano, ma come per ogni cosa, nel paese di Nino Martoglio, lasciarono che fosse, senza occuparsene né preoccuparsene. Il destino da quelle parti la faceva da padrone e si era certi che nessuno potesse sfuggirgli. Chi proveniva da una famiglia di bottai, finiva a fare il bottaio, come una famiglia di pescatori della Trezza restava una famiglia di pescatori della Trezza.
Ma se più spesso è il destino a fare un uomo, alle volte è un uomo a fare il destino, e sono queste le storie che ci piace raccontare, le storie di volontà e di riscatto, accompagnate da una buona vista e da qualche dose di pazzia.
Fino alla luna arrivavano gli sguardi di Venero. La osservava a lungo, steso sul patio di casa a riposare, dopo una giornata di lavoro tra le doghe delle botti. Quindi si alzava e si metteva a studiare, col favore della luce bianca che calava dall’alto. Preferiva risparmiare l’olio della lucerna. Tra la luna e i suoi undici o dodici decimi, poteva fare da sé.
Studiare (da autodidatta) fu la prima cosa che fece per sfuggire al destino. A che serve, una vista lunga, del resto, se non per portarti lontano?
E quando il destino tornò a mettergli le mani addosso e lo portò in guerra, con un atto di forza e di prepotenza, anche allora la vista lo aiutò a sfuggirgli. Fu questione di millimetri e di presenza di spirito. Con la coda dell’occhio Venero vide arrivare il pericolo e in un movimento impercettibile del busto ruotò fino ad allontanarsi dalla traiettoria del proiettile quel tanto che bastava perché la pallottola gli sfiorasse il collo, all’altezza della giugulare, ferendolo gravemente fino al coma, ma risparmiandogli la vita. A che serve una vista precisa, del resto, se non per farti salva la pelle?
Insomma, dalla guerra tornò con una cicatrice sul collo e qualcuna sul cuore, ma con le idee sempre più chiare. Prese il diploma magistrale, prese moglie (Maria), prese la laurea in pedagogia al Magistero. Divenne maestro di scuola elementare, letterato e cultore di teatro siciliano, che trattava con approccio critico e da pedagogista al tempo stesso. “Se si voleva salvare il teatro dalla sicura morte, si doveva sostenere il problema e non farne il processo,” dichiarava in un saggio, e sembra sentir parlare gli educatori di oggi.
Di lì a poco, prese a collaborare con un amico, l’ispettore scolastico Filippo Papa, alla scrittura di una rivista: La Tecnica della Scuola, fondata dallo stesso Papa nel 1949. Quattro fogli di didattica e di pedagogia per la scuola primaria, “sorti dalla volontà di contribuire alla rinascita e al miglioramento delle condizioni scolastiche dell’isola, per essere una fiaccola sempre accesa nelle diuturne necessità spirituali della vita scolastica. Senza alcun’aria cattedratica: esprimerà idee e ospiterà idee, da vecchi, giovani e giovanissimi uomini di scuola,” recita il primo numero della rivista. E la promessa: “Nessuna inframmettenza politica – sia diretta che indiretta – sfiora questo foglio”.
Tirocini, incarichi, supplenze, concorsi direttivi, collocamenti a riposo, sussidi didattici, riforme, ordinamenti scolastici, assemblee, convegni, edilizia, inchieste, missioni e sottocommissioni, insomma “fatiche e ansie” dei maestri erano tutte lì, tra quelle pagine. Venero e Filippo se ne prendevano cura, con passione e competenza, con un amore smodato per la scuola e con uno slancio democratico che aspirava a rendere facile a tutti l’accesso alle professioni della scuola. “Giovane insegnante che entri per la prima volta in un’aula scolastica dove 30 visini ti guardano impertinenti, noi vogliamo essere la tua compagnia,” rassicuravano i due, tra le righe della rivista.
In cambio, chiedevano un gesto amico: “I lettori di questo foglio non avranno che un modo per dimostrare la loro vera amicizia – recitava un trafiletto del giornale – quello di inviare l’abbonamento che è veramente irrisorio. Per un anno 400 lire, 1000 lire come sostenitore”.
Ma gli anni passavano e gli scarsi guadagni della rivista mettevano a dura prova i suoi creatori. E arrivò il giorno che Filippo Papa si sentì stanco e volle mollare. Era il 1962, di lì a poco la scuola media unificata. Venero, come Filippo, fu tentato di fare un passo indietro. Ma anche questa volta, guardando lontano, vide chiaramente le potenzialità di una rivista che non meritava di chiudere il ciclo. Poteva dare ancora molto agli insegnanti, ai direttori, ai provveditori, a chi viveva di scuola e per la scuola. Una fiaccola sempre accesa, recitava il primo numero, come la luna, come una vista buona.
Il 20 settembre 1962 uscì il primo numero della rivista sotto la sua direzione e proprietà. “Un compito assai arduo e duro mi è stato affidato,” scrive Venero Girgenti nel suo editoriale. “Lo so che la Direzione di una rivista comporta non indifferenti sacrifici, responsabilità e grandi preoccupazioni. E ringrazio il Direttore Papa per avermi affidato un così alto compito. Prometto che lavorerò sodo e mi batterò per i problemi della scuola. E, Voi, cari colleghi, sapete che problemi da risolvere la scuola ne ha tanti, ecco perché non bisogna abbandonare il cammino che abbiamo intrapreso”.
Furono anni difficili e lo stipendio non bastava, tanto che Venero attingeva a metà di quello di Maria, maestra pure lei, per pagare i conti del giornale. La concorrenza delle altre riviste era spietata e i lettori esigenti. Molto esigenti. Affollavano la bottega di Venero, punto vendita del giornale, e approfittavano della cortesia del Direttore per rivolgergli le domande più spinose sull’accesso alla professione e sulle ultime disposizioni normative, un intrico di rovi e di liane che si stringevano fitti attorno alle situazioni personali più inestricabili. Più che di didattica e di pedagogia, quella gente voleva sapere come salire in cattedra. Venero, di fatto, era diventato un consulente e un esperto di normativa scolastica. Un aiuto prezioso per chiunque intendesse entrare nel mondo della scuola, ché l’inizio carriera può essere una giungla, fra graduatorie, concorsi, domande, scadenze, ingiustizie e ricorsi; e altre graduatorie e altri concorsi e altre domande. Certi casi erano talmente imbrogliati che Rino, come lo chiamava affettuosamente la moglie, a fine giornata, ci rifletteva ancora e stentava a prendere sonno.
Fu in una di quelle notti che compose un altro pezzetto del suo destino. Si alzò dal letto senza accendere l’Abat-jour, confidando nella luna, come sempre, e prese a sfogliare la sua rivista. Una notte povera di luce, ma ricca di visioni, perché Rino vedeva già da tempo cosa sarebbe diventato, il giornale, gli serviva solo metterlo a fuoco.
Correva l’anno 1969. A vent’anni dalla nascita della rivista, il giornale ebbe nuova vita, con i modelli di domanda per le supplenze che solo La Tecnica della Scuola forniva, in tutto il Paese. Una modulistica che avrebbe semplificato la vita a centinaia di migliaia di persone, portando sulla scrivania di uomini e donne di scuola schede pre-compilate di facile comprensione, a districare le norme più astruse e la burocrazia più feroce.
La rivista attraversò lo Stretto nelle valigie dei giovani insegnanti o sotto le loro ascelle, e di valigia in valigia, di ascella in ascella, arrivò in Nord Italia, dove le cattedre trovavano i loro aspiranti, nell’anno della liberalizzazione dell’accesso all’università da qualunque indirizzo di scuola, anche da quello tecnico, una riforma che gonfiò le classi, portandovi dentro molti studenti e un incredibile numero di insegnanti.
Bastò il passaparola. Il giornale arrivò a stampare duecentomila copie, i modelli per le supplenze fino a un milione. Dalla stampa in macchina piana, La Tecnica approdò alla rotativa, più veloce ed efficiente, lungo un percorso che da Catania la condusse fino a Roma.
Il lavoro divenne frenetico. Rino prendeva il treno della sera per trovarsi poco dopo l’alba al Ministero dell’Istruzione; lì recuperava circolari e ordinanze, e riprendeva il treno, commentando nello stesso giorno le norme durante il tragitto, in attesa di casa. A Catania il giornale, composto prima su linotype, anni dopo a freddo, impressionato su lastre offsett, veniva chiuso, blindato nella sua valigetta, e portato a Roma. Un altro viaggio in treno, una notte in stamperia e un’altra ancora in treno, di ritorno a casa, mentre le copie viaggiavano nel vagone merci, toccavano il suolo siciliano e ripartivano alla volta dei lettori, arrivando nelle loro mani appena 72 ore dopo la chiusura della rivista.
L’invenzione della modulistica di settore insieme alla tempestività con cui le norme scolastiche venivano pubblicate e interpretate fecero del giornale siciliano il punto di riferimento indiscusso di quell’epoca, per le domande di supplenza, di mobilità, di passaggio di ruolo. Soltanto anni dopo il Ministero dell’Istruzione avrebbe prodotto i propri, di formulari, in gran parte simili a quelli della Tecnica.
Il giornale, per allora, era già famoso e si era trasformato in ciò che, sin dal nome, ne testimoniava la vocazione: essere una rivista tecnica. Sulle grandi testate nazionali, quando si parlava di scuola, non di rado ci si imbatteva in una foto di insegnanti con la rivista scolastica tra le mani.
Nel 1979 La Tecnica della Scuola conobbe i computer e anche allora Rino, acquistandoli, seppe vedere lontano, sebbene non sapesse usarli, quegli affari, e a loro avrebbe per sempre preferito la macchina da scrivere.
Intanto Gabriella e Daniela, le due figlie, erano già adulte e lavoravano al giornale da prima di laurearsi, affiancate da grandi collaboratori (dal professore Sebastiano Calogero al provveditore Vito Cardella). Poco per volta Rino lasciò loro sempre più spazio.
Preferiva andare in campagna a godersi l’aria aperta. Nel tempo si ritirò in casa, dove Maria leggeva per lui, alla fine quasi cieco per una retinopatia, ma non per questo meno visionario. Morì quindici giorni prima che nascesse il portale online della Tecnica della Scuola. Non ebbe il piacere di vedere il suo quindicinale farsi quotidiano, ma d’altra parte lo aveva immaginato mille volte così, ché dove gli occhi si indeboliscono, l’immaginazione si rafforza.
Il 21 maggio 2021 ricorre il suo centenario. La Tecnica della Scuola è molto diversa dai tempi di Venero Girgenti, ma il suo sguardo è ancora tra le righe del giornale, una fiaccola sempre accesa. Come la luna. Come una vista buona.
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