È decisamente singolare che nel nostro Paese, ad ogni piè sospinto, tutti si sentano in diritto di sentenziare sulla Scuola criticandone ora questo ora quell’altro aspetto, basandosi per lo più su di una propria visione del tutto esterna o, nel migliore dei casi, facendo addirittura riferimento a ricordi di esperienze personali fin troppo lontane nel tempo.
C’è da dire innanzitutto che negli ultimi trent’anni la Scuola italiana è molto cambiata. Ma prima ancora è la società italiana ad essere radicalmente cambiata e ciò, è ovvio, ha avuto forti ripercussioni su tutta la comunità.
L’educazione civica nelle nostre scuole è diventata oggi forse una delle discipline cui si dedica maggiore attenzione e, senza dubbio, molta di più rispetto a quanta se ne dedicava anche nel passato più recente.
Quando la mia generazione ha frequentato le elementari e poi le medie, e non era certo l’età del ferro, il problema ancora non si poneva. Le maestre e i professori quasi sempre sapevano dosare la giusta quantità di moralismo ed educazione al rispetto, insegnando alle proprie alunne e ai propri alunni un minimo e un massimo comune denominatore di senso civico, utile a crescere e diventare adulti.
Cosa è successo però in questi ultimi trent’anni tanto da legittimare accese interrogazioni parlamentari e di seguito istituire per legge corsi di educazione civica nelle scuole italiane? Perché si è giunti al punto di dover istituzionalizzare ciò che in precedenza era prassi comune negli istituti italiani di ogni ordine e grado? Quale profonda preoccupazione sociale vi è oggi, e che in passato non c’era, al fondo di decisioni tanto serie da giustificare la necessità di comprendere nei corsi di studio anche lezioni di educazione alla legalità, di lotta al bullismo e di rispetto delle “diversità”? In un quarto di secolo la globalizzazione, internet e i social-network hanno mutato radicalmente le nostre vite ed il nostro rapporto con gli altri. I telefoni cellulari oggi ci sottopongono a tutta una serie di insidie, fatte di auto-isolamento, narcisismo patologico, bullismo, e soprattutto consentono un accesso immediato a qualsiasi cosa, comprese immagini di una violenza inaudita.
In molti casi i genitori, a causa del lavoro, hanno purtroppo sempre meno tempo da dedicare all’educazione delle proprie figlie e dei propri figli e dunque spesso hanno delegato alla Scuola non solo la formazione, ma anche l’educazione stessa di ragazze e ragazzi. E la Scuola ci prova, ma è inevitabilmente superata prima dai mass media e poi dai social network. Ogni giorno le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono assediati dalla volgarità della televisione, delle discoteche, della “bella vita” a tutti i costi.
Come si può sensibilizzare un ragazzo o una ragazza a combattere la sottocultura della mafia, della corruzione, dell’omertà, quando in televisione le fiction elogiano il senso dell’onore e della famiglia di certi spregevoli criminali? Cosa posso rispondere a un ragazzo o a una ragazza che dopo aver visto un film in tv mi dice “Beh in fondo quel boss era davvero un uomo d’onore e amava la propria famiglia”?
Cosa rispondo ad un alunno che mi chiede “ma prof, se voglio fare l’imprenditore, a che mi serve il latino?”, “E imprenditore di cosa?”, gli dico io e lui: “Non lo so, qualsiasi cosa. Voglio diventare ricco!”. Allora vuol dire che non c’è un sogno, un desiderio, una prospettiva, un obiettivo.
C’è solo l’illusione che la felicità sia legata al soldo e basta. E il soldo nel mondo romano era la paga del soldato che veniva retribuito perché obbedisse e combattesse. Ma se e quando questo soldo dovesse venire meno, che rimane?
Questo relativismo sfrenato ha minato alla base il sistema di valori su cui abbiamo costruito la nostra società. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che la ricchezza non è questo e possiamo farlo solo abbandonando la passività cui ci hanno relegato questi tempi moderni.
Ma noi docenti siamo soli e la nostra è una battaglia donchisciottesca, una battaglia impari perché la Scuola dura cinque ore mentre l’assedio del mondo dura ventiquattro ore al giorno.
L’autonomia scolastica ha poi aperto la strada ad un macroscopico conflitto di interessi. Si è scatenata una spietata concorrenza tra gli Istituti per accaparrarsi più iscritti possibile, perché più iscritti significa più fondi e quindi più soldi. Dunque è necessario non bocciare più non perché la Scuola sia inclusiva – questa sarebbe una più che nobile motivazione – ma perché qualunque studente o studentessa preferirà sempre e comunque iscriversi in un istituto dove si sa che si vien tutti più facilmente ammessi all’anno successivo.
La politica scolastica finalizzata a favorire più iscrizioni possibile passa poi anche attraverso l’omertà relativa a fatti gravissimi che si verificano quotidianamente in tantissime scuole italiane e che vengono sottaciuti proprio perché non venga lesa la buona immagine dell’Istituto, ostacolandone l’aumento delle iscrizioni.
Bisognerebbe ricordare a chi critica il lavoro dei professori e delle professoresse italiane che non esistono solo i licei classici e scientifici di Roma, Milano e Bologna, i cui contesti sono a dir poco privilegiati. Esistono realtà al di fuori della realtà, scuole dei piccoli centri o delle periferie delle grandi città dove, ancora oggi, riuscire ad insegnare ad adolescenti o maggiorenni pluri-ripetenti le più semplici basi della grammatica italiana è una vittoria ben maggiore che spiegare il quinto canto dell’Inferno. Scuole dove gli alunni portano con sé armi, dove si verificano continui pestaggi o dove il bullismo è la regola.
E dunque, per quanto “l’empatia” sia fondamentale in qualsiasi rapporto umano e professionale e a maggior ragione nel dialogo tra il docente e la classe, non è di sicuro un’arma sufficiente per questo tipo di battaglie.
È necessaria invece una più viva collaborazione tra Scuola, famiglie e istituzioni perché queste realtà inenarrabili diventino una volta per tutte soltanto un ricordo. Ed è necessario, una volta per tutte, che la si smetta di processare sempre e comunque i lavoratori della Scuola e si inizi a portar loro lo stesso rispetto che meritano tutte le altre categorie professionali.
Luca Loizzi
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