“Quasi il 10% di adesioni non è un flop, anche se certamente si poteva fare di più”: commenta così Pino Turi, leader Uil Scuola, la bassa adesione allo sciopero del 20 maggio.
A colloquio con La Tecnica della Scuola, il sindacalista cerca di spiegare le ragioni di questo risultato sotto le aspettative. Soprattutto perché i mal di “pancia” nelle scuole ci sono. E sono pure tanti. Anche nei confronti dei sindacati, rei di aver piegato la testa sulla chiamata diretta in cambio di un contratto sulla mobilità che ha salvato dagli ambiti territoriali gli assunti fino al 2014 e parte di quelli immessi in ruolo dopo. “Ma noi non abbiamo firmato nulla che ha a che fare con la chiamata diretta”, tiene a dire il sindacalista confederale.
Turi, però è un dato di fatto che ieri ha scioperato meno di un dipendente su dieci?
Le ragioni possono essere molteplici. Ad iniziare dal fatto che aderire allo sciopero comporta la sottrazione di una giornata di stipendio, che corrisponde a 60-70 euro in media. E con gli stipendi ridotti all’osso, i bidelli fermi a 1.100 euro e i docenti a poco più per diversi anni, è una considerazione che va fatta.
Però un anno fa, il 5 maggio 2015, l’adesione fu massiccia…
La riforma doveva essere ancora approvata e si era arrivati più consapevoli allo sciopero.
Cosa intende?
Che forse stavolta abbiamo pensato più alle persone che al sindacato: abbiamo, ad esempio, preferito dare supporto ai tanti docenti e Ata impegnati nelle fasi di mobilità, andando meno nelle scuole a fare assemblee ed incontri preparatori allo sciopero.
Ma cosa c’è ancora da spiegare? La riforma è cosa nota e gli stipendi fermi del 2009 pure…
Andava spiegata l’importanza di mandare un segnale di opposizione al Governo.
Invece vi siete fatti autogol…
Non esageriamo, anche altre volte la partecipazione non è stata entusiasmante. Soprattutto fino a qualche anno fa, quando altri sindacati hanno abusato dello sciopero, facendone un uso distorto.
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In ogni caso, ora il Governo gongola?
Io, se fossi tra i governanti, non sarei così tranquillo.
Perché?
Il Governo deve stare attento, perché in passato è accaduto che quando i lavoratori hanno ‘ingoiato’ il malcontento, senza esprimerlo, si sono sfogati comunque con modalità diverse.
Quindi, cosa potrebbe accadere?
Questo non lo so: dico solo che i lavoratori della scuola sono stufi di rimanere con gli stipendi congelati e di subire norme che burocratizzano la professione, penalizzano la didattica e mettono il personale in una condizione di sterile concorrenza.
Lo avete detto al ministro Giannini?
E chi lo ha visto?
Da quanto tempo non lo incontrate?
Non vediamo il ministro da settembre. E mai come in questo momento, con la sequenza contrattuale della mobilità da definire, un confronto è indispensabile. Ma questa sua mancanza di considerazione per chi rappresenta e testimonia il pensiero dei lavoratori, rende tutto più difficile.
Solo il ministro dell’Istruzione può capire le vostre istanze?
No, anche il capo di gabinetto o un sottosegretario andrebbero bene.
Perché insistete sulla presenza di un rappresentante politico in sede di confronto?
Perché i funzionari o dirigenti del ministero dell’Istruzione non hanno la forza per interpretare in modo diverso le norme di legge. Mentre noi abbiamo bisogno di parlare con chi può aver modo di ridurre certi effetti, la cui mera applicazione porterebbe dei danni sicuri a chi vive la scuola.
Ci può fare un esempio pratico?
Basta guardare al pasticcio delle classi di concorso: approvate, piene di errori, dopo anni di bozze presentate e rifatte. Non ci hanno voluto consultare e ora è tutto bloccato, dopo che sono diventate legge. Quando ci hanno convocato, gli abbiamo spiegato che adottarle in questo modo avrebbe comportato un caos. Così sono stati costretti a riproporre le vecchie classi concorsuali.
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