Giorgia Meloni è la prima presidente del Consiglio donna, e per le comunicazioni ufficiali userà i pronomi maschili per indicare la sua carica. Sarà quindi indicata da Palazzo Chigi come “il presidente” e non come “la presidente”.
Il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, interpellato nei giorni scorsi dall’agenzia Adnkronos, ha specificato che “è giusto dire la presidente, la premier, la prima ministra”. Ma ha anche precisato che non è un obbligo: “Chi usa questi femminili accetta un processo storico ormai ben avviato”.
Non è un errore da sottolineare con la matita blu, specifica l’Accademia della Crusca, e siamo convinti che Meloni, il suo staff, lo sappia bene.
Tuttavia quello che ci pare interessante sottolineare sta nel fatto che così scegliendo Meloni dichiari apertamente una supremazia del maschile sul femminile, la riaffermazione di un patriarcato antico che supera e nega una idea paritaria; una supremazia dell’uomo radicata perché ha visto da sempre nelle cariche più importanti dello stato maschi e non femmine, come appunto presidenti, ministri, direttori ecc.
Così scegliendo e così confermando allora ci pare che Meloni vogli fare una sorta di harakiri, non solo della lingua italiana, che contempla regolarmente il femminile, ma anche nei confronti del suo essere donna e poi del movimento femminista, che ha tenuto sempre a riscattare ruolo e funzione di quello che veniva considerato “sesso debole”, riportandolo alla sudditanza degli uomini, e dunque accettando anche la sua posizione subalterna come femmina e madre.
Infatti, la considerazione che sia una donna, la prima a ricoprire la carica di premier, a richiedere il maschile al posto del femminile, sembra ancora più singolare, come se le lotte per i diritti non ci fossero mai state. Ed è forse per questo che Meloni lo preferisce, per affermare un maschilismo autoritario e pure il suo netto e preciso proposito di disconoscere una battaglia ideale e politica portata avanti per lo più dalla sinistra e dai movimenti radicali.
Me sembra pure un modo per contrastare le spinte per la parità di genere e non solo fra maschio e femmina, ma anche fra coloro che stanno in una terra di mezzo, i quali però vorrebbero che si riconoscesse anche la loro cittadinanza, come del resto la Costituzione stabilisce.
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