Gholam Najafi, profugo afgano trentenne, dopo alcuni anni di permanenza in Italia, pubblica uno struggente libretto per La Meridiana, dal singolare titolo: “Il sorriso di Melograno”, che non è “l’ardente fiore” di dannunziana memoria, più umilmente è il nome della madre, Melograno, che l’autore è stato costretto a lasciare in patria per inseguire un avvenire meno precario di quello che i talebani potevano disegnare.
E una volta in Italia, bella e questa volta non distratta, ritornano i richiami della casa che udì i suoi vagiti e sulla cui soglia lasciò le scarpe, come segno d’appartenenza e per indicare che la sua anima rimaneva comunque accanto alla madre che lui sa bene attenderlo sull’uscio ogni giorno. Seduta, di sicuro canta la “ghazal”, la poesia che esce dal cuore come il vapore dalla terra primaverile, perché create dall’anima più tenera. E non sono i poeti a declamare questi versi, perché sono espressione dei sentimenti più profondi, così come escono dal cuore di chi ne avverte la musica struggente; e infatti non hanno bisogno nemmeno di scrittura, perché sono canti millenari, trasmessi da generazione in generazione e dunque sinceri come l’amore della madre nell’attesa del figliolo che è emigrato per bisogno.
Proprio questi canti, antichi e melodiosi, Gholam ha trascritto in italiano, usando lo stile tipico di quei componimenti, brevi, per raccontare i mondi arcani che oggi ancora la madre Melograno custodisce.
Diviso in due parti, il libro nella prima espone la raccolta di queste strofe, secondo la grafia originale, dell’ancestrale cultura afgana, nella seconda riporta le poesie dell’autore che volano sempre sulle medesime steppe popolate di odori e d’armenti dei canti della sua Patria. Scritti in italiano, fu la sua insegnate di lettere ad aiutarlo, invogliarlo e correggere qualche incertezza nei suoi versi, mentre una melodia, talvolta sconosciuta all’occidente, tocca le corde della centra del mito.