Tutto ebbe inizio con Luigi Berlinguer quando, col beneplacito della Flc-Cgil, indisse il famoso “concorsone” per assegnare un premio ai docenti migliori. Una esigenza sentita questa da parte della stragrande maggioranza dei professori, così come fu rilevo da un sondaggio dell’Anp, che ebbe grande diffusione e rilevanza nazionale. Senochè, proprio sulle modalità di giudizio, un tema, cadde la testa dell’allora ministro del Pds nel governo Prodi.
Ci provò a rilanciarlo Letizia Moratti, col governo Berlusconi, e poi Mariastella Gelmini con un altro marchingegno organizzativo che però abortì miseramente.
Si trattava di una sperimentazione del cui esito si perse perfino la traccia. Ne riparlò anche il ministro del governo Monti, Francesco Profumo, mentre naufragava definitivamente la proposta di legge “cosiddetta Aprea”, che prevedeva tre gradi di premialità sulla base degli aggiornamenti e della partecipazione a dei corsi particolari di formazione. Questa in vero era stata una riformulazione di una proposta della deputata Napoli (An-Ds), ministra Moratti, per regolamentare anche l’accesso alla vicepresidenza.
Con il governo Renzi e la legge 107, della cosiddetta buona scuola, alla fine il tanto agognato premio ai docenti è venuto alla luce, ma non piace ai docenti. O meglio non piace ancora una volta la modalità, non l’obiettivo, il riconoscimento cioè, soprattutto ambito da chi lavora e lavora in classe coi ragazzi, inventa e innova la didattica, si sforza di dare il meglio di sé, non solletica la demagogica e ruffiana lode degli alunni e prima di mettere un voto ci pensa mille e poi altre mille volte, perché un giudizio bisogna darlo e un giudizio pesa. Quella categoria di prof insomma che entra in aula prima dei suoi allievi ed esce dopo, spiega con cognizione di causa, sa gestire i conflitti, è autorevole, da spazio alla creatività e alla fantasia dei suoi ragazzi, non li umilia, ma sa punirli al momento opportuno e così via.
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Ecco, quella categoria di docenti dovrebbe essere premiata, ma come? Infatti, il nodo è il “modo”, il “come”, che però non è certamente questo inventato dalla legge 107 che affida ai genitori, agli alunni e a un comitato di valutazione, eletto dal collegio, la responsabilità di dire quale docente meriti dei soldi in più al magro stipendio, rispetto a un altro. Umiliante dicono in molti nei confronti di chi rimane all’angolo, pur essendo un bravo docente, e ancora di più se l’ultima parola spetta al dirigente, mentre i parametri di valutazione tendono a scegliere i risultati più visibili, come la stesura di progetti, la collaborazione con la dirigenza, la partecipazione agli organi e così via. I punteggi insomma cha fanno titolo per i concorsi e non per stabilire il merito intrinseco di ciascun professore.
Anche da qui è partita l’idea del nostro sondaggio che in pochi giorni ha raggiunto oltre duemila voti, la cui lettura però non lascia dubbi interpretativi: il 78% non vuole soldi premiali, non viole essere giudicato con queste modalità, non intende sottoporsi al giudizio di comitati, non tollera scale e misure, graduatorie di merito e possibili arbitri del dirigente. Solo il 22% ha detto di essere contento e soddisfatto dei parametri stabiliti dalla legge 107. E se è cosi, come lo è, viste pure la presa di posizione di tanti docenti di moltissime scuole italiane, che hanno deciso di devolvere i soldi o per la didattica o per i ragazzi bisognosi o di restituirli, è bene che se ne prenda atto e che si intervenga per modificare le modalità, non già l’idea che in fondo può essere giusta.
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