Uno spettro si aggira nella Scuola: è il malcontento dei docenti, nutrito di bassi stipendi, scarsa considerazione sociale, carichi di lavoro (burocratico la più parte) in progressivo aumento. Si aggiunga lo scontento per le novità apportate dalle “Linee guida per l’orientamento, il tutor scolastico e il docente orientatore” (decreto n. 328 del 22 dicembre 2022 e norme successive). La maggior parte dei docenti del triennio finale dei licei se ne lamenta come di un ulteriore impegno dal senso discutibile, imposto dall’alto, che non permette di completare la propria programmazione: troppe, infatti, appaiono le ore di lezione sottratte all’attività curricolare. Il tutto è vissuto da molti docenti come se lo Stato avesse deciso di “rieducare” direttamente gli studenti, sostituendosi ai prof e togliendo loro l’iniziativa didattica. Ma è realmente così?
Il livello culturale dei diplomati italiani, si sa, da 40 anni è in picchiata. Tanto da mettere in crisi i docenti universitari, che stentano trovare studenti capaci di scrivere in modo efficiente, efficace, inequivocabile, corretto, comprensibile. 13 anni di scuola sfornano diplomati con lacune prima inimmaginabili, se non tra la popolazione non scolarizzata. Ci si chiede perciò: è proprio l’orientamento il problema degli studenti italiani? Quali competenze sociali può sviluppare chi non sa ancora ascoltare (perché non capisce o è incapace di stare attento), né parlare (a causa del lessico limitato e dello scarso bagaglio culturale, che ne limita le capacità argomentative), né leggere (smarrito di fronte testi più lunghi di dieci righe), né scrivere (per tutti i precedenti motivi)? Come sviluppare queste basilari competenze, se non tramite le discipline che si studiano a scuola?
Come imparare a fronteggiar problemi emotivi e interpersonali, a tollerare il conflitto e a ridurre lo stress — competenza che è di gran moda definire “coping” — se non crescendo anche intellettualmente tramite le medesime discipline? Sminuire queste giova agli studenti? Oppure danneggia soprattutto quanti tra loro non sono sostenuti da famiglie evolute e colte?
Tale danno è evidentissimo oggi. «Una licenza di terza media presa nel 1965 valeva di più di una licenza liceale odierna. E il livello di competenza linguistica di un laureato odierno è, in media, inferiore quello di un diplomato del liceo alla fine degli anni ’60»: parola del professor Luca Ricolfi, politologo e sociologo dell’Università di Torino. Il quale chiosa: «L’abbassamento della qualità dell’istruzione ha danneggiato più i ceti popolari che quelli alti».
La didattica delle discipline scolastiche non è fine a se stessa. Le discipline, se apprese, divengono strumenti atti a risolvere problemi, ognuna da un diverso punto d’osservazione: ogni disciplina aiuta a definire i problemi, identificarli, descriverli, a ricercarne le possibili soluzioni, a trovare le strategie migliori per risolverli, a accertarne l’efficacia. Quale orientamento può esservi, quindi, senza lo studio delle discipline?
Quale orientamento, svincolato dalle discipline di studio, può realmente far maturare negli studenti l’attitudine a criticare i fatti e non le persone, ad evitare i luoghi comuni e le affermazioni generiche, ad essere assertivi, a chiedere aiuto e ad accettarlo? Noi adulti, che a scuola non avevamo l’orientamento (ma studiavamo molto di più), siamo forse cresciuti male? Forse non abbiamo trovato il nostro posto nel mondo?
C’è poi un altro problema che non si può non porsi: far virare la Scuola verso una didattica puramente orientativa al mondo del lavoro, non significa forse preparare i giovani a lavori validi oggi, ma probabilmente non domani? Cosa accadrà a ragazzi e ragazze preparati solo per un tipo specifico di lavoro, quando quel lavoro sarà superato? Non è forse preferibile dar loro una preparazione culturale ampia e variegata, che renda capaci di imparare da soli?
Se profonda e versatile, la preparazione culturale fornisce anche un altro vantaggio: la dignità del lavoratore, e la sua consapevolezza di meritare il salario per cui lavora; “competenze” dal valore indiscutibile, acquisibili solo con cultura e studio, e foriere di progresso per tutta la collettività, perché chi è soddisfatto del proprio lavoro lavora bene.
L’attuale gran parlare dell’orientamento, il dedicarvi tempo, denari ed energie, genera in molti insegnanti la sensazione — inquietante, straniante e sgradevole — che si parli di orientamento per non parlare dei problemi veri della Scuola italiana: le classi troppo numerose, gli edifici fatiscenti, squallidi e pericolosi, la scarsità numerica del personale, la precarizzazione di un terzo dei docenti e degli ATA, i continui tagli lineari ai finanziamenti pubblici (mentre crescono le regalie statali alla scuola privata), la burocratizzazione del lavoro docente, l’autoritarismo ministeriale (manifestato dall’operato di alcuni prèsidi), l’esiguità degli stipendi, il disprezzo e la violenza crescenti contro i docenti, la dipendenza nevrotica dei giovani dai dispositivi elettronici, l’incapacità di troppi genitori nello svolgere il ruolo di educatori (rispettando il lavoro e la funzione dei docenti).
In una situazione come questa, in cui la Scuola è — contrariamente a quanto si afferma a parole — l’ultima ruota del carro, non è facile insegnare per indurre nei ragazzi comportamenti “prosociali”, come la puntualità nelle esecuzioni, il rispetto dei tempi, la volontà di attenersi al tema trattato, e via dicendo. Non bastano le tecniche dell’orientamento. Serve l’esempio, perché si insegna — come diceva Jean Jaurès — ciò che si è, non ciò che si sa o si crede di sapere.
Una Scuola malridotta non è autorevole, e i suoi insegnamenti non appaiono attendibili né attraenti. Per questo non funziona come dovrebbe. Altro che orientamento.
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