Non è un’idea che va per la maggiore oggi. Nel senso che sembra un retaggio del passato. Oggi prevale invece il mito dell’io, della sua autorealizzazione, della sua autodeterminazione.
Come se vivessimo non in un mondo fatto di relazioni, di intrecci variopinti di contatti ed interazioni, per cui nessuno possa sentirsi e dirsi autosufficiente. Il nostro è, mi verrebbe da dire, il tempo dell’imperio dell’io. Che si tratti di individuo, gruppo, ceto sociale, standard economico, nazione, Stato.
E gli altri-da-me, da-noi? Sembra quasi profetica, a questo proposito, la famosa asserzione di Sartre, secondo cui “l’inferno sono gli altri”. Concetto che lo stesso Sartre spiegava così: “Si è pensato che volessi con questi dire che le nostre relazioni con gli altri sono sempre avvelenate, che si tratta sempre di rapporti infernali. In realtà, quello che voglio dire è un’altra cosa… l’importanza capitale di tutti gli altri per ognuno di noi”.
In altri termini: non c’è l’io senza il tu, senza il noi. Pensiamo per un attimo ai nostri affetti, ai tanti confronti a livello famigliare, sociale, lavorativo. Anche sul piano religioso, per l’Altro che, nella fede, si dona in ogni momento.
Limitandoci al piano sociale, pensiamo all’assuefazione rispetto alle tante contraddizioni, alle disuguaglianze, alle ingiustizie. E l’idea della guerra come risoluzione di queste contraddizioni non può che rischiare di diventarne quasi un’ovvia conseguenza. Che si tratti di individui, di gruppi, di nazioni, di Stati, poco importa. Importa la logica del potere, cioè della contra-posizione.
In un mondo inter e iper-connesso, poi, riflettere fa sempre bene su queste parole chiavi, sui pregiudizi che vengono ogni giorni alimentati non per favorire un dialogo, una fraternità, una compassione, una solidarietà.
Il presente, si suol dire, è fatto di complessità. Ma la stessa complessità non può essere considerata una maschera per ridurre a semplificazione ciò che invece richiede la capacità, di tanto in tanto, di cambiare angoli visuali per osservare e conoscere con occhi nuovi le vicende del mondo e di noi stessi.
Il mondo siamo noi con le nostre scelte, con i nostri percorsi di conoscenza a volte fatti di pregiudizi e da schemi del passato. L’unico antidoto, forse, è l’idea della conoscenza aperta, come un viaggio, quindi in continuo divenire, di contro ai vecchi e nuovi modelli di omologazione. In continuo divenire ma ben piantato su una sensibilità umanistica mai doma dei suoi compiti. Senza lasciarsi catturare da ideologie, o da prassi figlie di generalizzazioni, quelle che non riconoscono che l’etica della responsabilità è comunque sempre e anzitutto personale.
Le stagioni della paura e della insicurezza, figlie, in questi tempi, della pandemia e della violenza della guerra, non possono e non devono annullare la cura delle relazioni, l’esercizio del rispetto, la fame di dettagli di vita, la mitezza come stile di ciascuno.
Il luogo per eccellenza è la famiglia, la quale, assieme anzitutto alla scuola, ha la responsabilità di non lasciarsi risucchiare da pregiudizi e generalizzazioni. La scuola, ad esempio, chiede sempre di non limitarsi al muro delle impressioni e delle opinioni.
La scuola richiede invece lo sperimentare in classe l’arte della mediazione tra persone, in ragioni di percorsi di studio, di analisi e di sintesi sempre aperti e sempre includenti. Senza timori reverenziali. Perché sa che la verità delle cose è pur sempre criterio di se stessa, oltre i nostri stessi punti di vista e schemi mentali. E’ nella scuola, dunque, che si costruiscono assieme alla famiglia i primi modelli della alterità e dell’accoglienza reciproca.