“In Italia il mestiere del musicista è costantemente svilito, al punto da venire spesso declassato hobby, sfizio o capriccio a cui dedicare il tempo libero”. Thevision.com fa una giusta analisi di quello che nel nostro Paese non è ritenuto nemmeno un mestiere o un lavoro nobile: fare il musicista.
Molti pensano, aggiunge il sito, che “non esistono gli anni di studio, i sacrifici, i costi per la strumentazione e per il percorso di apprendimento, o le battaglie annuali con la Siae: tutto quello che ruota intorno alla musica è fuffa”.
Il motivo? “Si trova in larga parte nel decadimento artistico e culturale del nostro Paese”. Non solo la musica è assente nelle scuole elementari e medie, ma lo stesso percorso dei Conservatori è tortuoso.
Fino a qualche anno fa inoltre, “uno studente del conservatorio poteva avere un percorso di studio decennale, ma “il titolo finale non veniva riconosciuto nemmeno come una laurea di primo livello. Adesso gli iscritti ai conservatori sono 76mila, con una crescita media dal biennio 2010-11 del 7% annuale e un aumento del 60% dei diplomati rispetto a otto anni fa.
Il problema più rilevante, viene scritto dal portale, riguarda la precarietà dei professori: circa mille insegnanti dei Conservatori hanno ancora un contratto non definitivo e manca ancora un’abilitazione nei conservatori a livello nazionale comparabile a quella universitaria. Inoltre, migliaia di cattedre sono scoperte e l’Afam non ha una Direzione generale.
Da qui dunque il fatto che “il settore lavorativo musicale sta attraversando una vera e propria crisi occupazionale, con le difficoltà degli orchestrali direttamente proporzionali a quelle dei teatri. Uno dei casi più recenti ed eclatanti è il rischio di chiusura del Teatro Bellini di Catania, un tempio della lirica sommerso da problemi finanziari e costantemente oggetto di interrogazioni parlamentari”.
Solo la musica classica in crisi? Anche quella leggera non si trova in uno stato di salute migliore.“La crisi dell’industria discografica ha creato un appiattimento nel livello di qualità e di opportunità”, mentre gli aspiranti sono costretti a una gavetta fatta di esibizioni in locali che prediligono le cover band e che pretendono di pagarti “in visibilità”. “Lo scenario di adesso è quello della musica digitale, dove guadagnano solo le case discografiche e non gli artisti. Se arriva un ragazzino dal paesino e vince il talent, non puoi chiedergli di fare la rivoluzione. Quello a mala pena deve sperare che la radio gli passi il pezzo e di rimanere un po’ lì, mantenere la famiglia, avere il riscatto sociale”.
Quindi il musicista, per sopravvivere, deve necessariamente trovare un lavoro fuori dal suo campo. “Se un violoncellista lavora in un call center e un batterista frigge patatine in un fast food, non lo fa perché non considera quello del musicista un mestiere, ma perché è la realtà sociale ed economica che lo circonda a non permettergli di farlo. È una forzatura, non una scelta”.
Per questo l’unica alternativa che rimane “è cercare fortuna altrove, in Paesi dove i musicisti vengono ancora rispettati, non solo a parole, ma soprattutto con offerte lavorative che premino il loro percorso formativo e talento. Anche questa, d’altronde, è una “fuga di cervelli”, dato che riguarda in molti casi la migrazione di cittadini talentuosi che l’Italia non ha saputo valorizzare.
Se l’Italia è ormai un Paese in agonia è in larga parte dovuto all’umiliazione che la cultura subisce da decenni”.
“Dobbiamo cambiare la mentalità dell’intero Paese e tornare alle nostre vere radici. Non fare nulla significa che i teatri continueranno a chiudere, le orchestre di professionisti vivranno nell’ansia di un contratto da rinnovare ogni pochi mesi e i musicisti resteranno per sempre degli individui che strimpellano uno strumento per hobby. E alla lunga, quella culturale coinciderà con la morte definitiva di questo Paese”.
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