Ha lavorato per troppo tempo nel silenzio generale il progetto dell’Autonomia differenziata, che scardinerebbe il funzionamento del sistema d’istruzione nazionale ma anche di altri servizi pubblici, Sanità, infrastrutture, porti, aeroporti, strade e autostrade, fondi pluriennali dell’Università, facendo venir meno la tenuta del Paese e emarginando i più vulnerabili e indifesi. La riforma del titolo V della Costituzione del 2001 ha subito una rapida accelerazione con i referendum consultivi di Lombardia e Veneto fino agli accordi di pre-intesa tra il sottosegretario Bressa (governo Gentiloni) e i Presidenti delle regioni Veneto, Lombardia e Emilia Romagna ed accolti dagli esecutivi Conte I e Conte II. Tutto il percorso è stato top secret e solo le ricostruzioni dei docenti Massimo Villone e Gianfranco Viesti e del giornalista meridionalista Marco Esposito sono riuscite a illustrare la valenza politica di un tale progetto disgregatore. Si parla di secessione dei ricchi, del Nord dal resto d’Italia, in ragione dell’inaccettabile “teorema meridionale” (così lo chiama Viesti nel suo libro La secessione dei ricchi), un pregiudizio trasformato in assioma economico-politico, secondo cui le regioni del Sud, incapaci di mettere a profitto le risorse loro destinate, frenerebbero la “locomotiva” produttiva delle regioni del Nord, che per questo chiedono di diventare, in pratica, regioni a statuto speciale. Si avrebbe un’Italia di “piccole patrie”, con la pretesa di costituire “popoli sovrani”, che esigerebbe finanziamenti pubblici calcolati sulla capacità contributiva dei residenti. Chi più ha, avrebbe ancora di più; la ricchezza della regione sarebbe ritenuta eo ipso un segno di buona amministrazione e promettente sviluppo. Se ogni regione trattenesse per sé il 90% del gettito erariale riscosso sul proprio territorio, così come ha deliberato il Veneto nel referendum del 2017, sarebbe la fine della scuola e della sanità pubbliche nazionali e di qualsiasi politica infrastrutturale, lo Stato ridurrebbe le risorse e i servizi per le regioni più povere: e senza fondi da destinare alla perequazione fra le regioni, il divario tra Nord e Sud si acuirebbe.
L’Autonomia regionale subordinerebbe la scuola alle scelte politiche, condizionando gli organi collegiali. Infatti, sia le “norme generali sull’istruzione”, oggi di competenza esclusiva dello Stato, sia “l’istruzione”, ora di competenza ripartita, passerebbero alle regioni, insieme al trasferimento delle risorse umane e finanziarie. Anche i percorsi PCTO, di istruzione degli adulti e l’istruzione tecnica superiore sarebbero decisi a livello territoriale, con progetti sempre più legati alle esigenze produttive locali, così come sarebbero decisi a livello territoriale gli indicatori per la valutazione degli studenti. Anche le procedure concorsuali avrebbero ruolo regionale e più difficili diventerebbero i trasferimenti interregionali.
Dall’emergenza pandemica, poi, emergono tutti i limiti della gestione regionalistica della Sanità degli ultimi venti anni, dalla discrezionalità dei presidenti di regione al rimpallo di responsabilità fra Stato e Regioni, con conseguente smantellamento della sanità pubblica e depotenziamento della medicina territoriale. A rompere il torpore su questi temi ci hanno provato in modo congiunto i COBAS e il Comitato nazionale per il ritiro di ogni autonomia differenziata, (con quaranta comitati provinciali) che da due anni si battono per respingere il progetto eversivo, fin dal documento del 14 febbraio 2019 che anticipava due assemblee nazionali e lo sciopero del 17 marzo.
Non ci rassicura il ritiro del DDL Boccia, ex-ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, e neanche il fatto che il Presidente Draghi non abbia accennato al progetto di AD: la composizione della squadra di governo di Draghi, con tre ministri su quattro del Nord, ripropone infatti il rischio di una nuova deriva autonomistica. A Giuseppe Provenzano, vicedirettore Svimez, è subentrata Mara Carfagna in quota FI, ministra del Sud con delega al Mezzogiorno e alla Coesione sociale che sul Mattino del 23 marzo scorso ha affermato che i LEP (Livelli essenziali di prestazione) debbano essere definiti dallo Stato; mentre la responsabile degli Affari regionali e Autonomie, Mariastella Gelmini, annuncia di voler ripartire dalla Legge Quadro portando a compimento il processo di regionalizzazione. In conclusione, l’Autonomia differenziata è un pericolo per il principio di uguaglianza riferito ai principali diritti costituzionali: salute, istruzione, università e ricerca, lavoro, previdenza, assistenza. Giusto quindi ripartire da una maggiore equità e attenzione verso i territori del Sud, riequilibrando le differenze infrastrutturali e di servizi e per iniziare progressivamente a recuperare il gap esistente e risolvere una questione che è innanzitutto di giustizia sociale.
Carmen D’Anzi Esecutivo Nazionale COBAS – Comitati di base della Scuola
pubbliredazionale
Ascolta subito la nuova puntata della rubrica “La meraviglia delle scoperte” tenuta da Dario De Santis dal titolo: “I Simpson, nel…
"Servirebbero più risorse per la scuola pubblica e per l'istruzione per garantire il diritto al…
I compiti a casa sono il momento del consolidamento e della rielaborazione delle conoscenze, e dell'esercitazione…
È partito il 21 scorso alle 15,10 da Torino Porta Nuova il "Sicilia Express", il…
Una aspirante partecipante al concorso ordinario PNRR 2024 della scuola primaria e infanzia, ci chiede…
Il 19 dicembre 2024 segna un passo decisivo per l’organizzazione del concorso docenti. Con una…