Credo abbia sorpreso un po’ tutti il nuovo nome dato al ministero dell’istruzione, con l’aggiunta “e del merito”.
Questa novità costringe ora le scuole a modificare le carte intestate. Cosa banale, semplice.
Ma non è questa la vera novità.
La quale va compresa anzitutto “nel merito”, cioè nel suo significato, perché non è chiaro che cosa possa significare, sapendo che l’unico atto davvero obbligatorio delle scuole è la valutazione, cioè la valutazione, appunto, secondo merito ed equità.
Cioè il vero atto obbligante tutte le scuole non è garantire la frequenza, ma la valutazione, essendovi sempre la possibilità, da parte delle famiglie, della cosiddetta “istruzione parentale”, la quale però andrà poi valutata dalle scuole pubbliche (statali o paritarie).
Il problema vero, dunque, sta nella comprensione di cosa voglia dire questa parola-chiave, cioè il richiamo esplicito, nella titolazione del ministero, al merito.
Si fa presto, però, a parlare di merito. Il problema è che ognuno lo intende a modo suo.
E allora c’è chi lo confonde col vecchio nozionismo, oppure con la mera logica competitiva e selettiva, come se bastasse oggi, in una società aperta, ridurre la formazione a forme deterministiche di apprendimento meccanicistico.
L’equivoco sta tutto qui.
Come sempre, chiedo e mi chiedo: qual è il compito della scuola attraverso i percorsi educativi e scolastici, con la valutazione, che è atto obbligatorio, e cruna dell’ago vincolante per tutti? Per gli studenti, in vista degli esiti, per i docenti e le scuole perché attraverso le valutazioni che si rendono valutabili a loro volta, in termini di qualità e di equità.
Ma resta la questione di fondo, che è bene sempre tenere a mente: la scuola, come “casa di tutti”, non ha lo scopo di selezionare i “migliori”, ma, più concretamente, di fare in modo che emerga in tutti i nostri bambini e ragazzi “la loro parte migliore”.
Lo ripeto: non i migliori, ma la parte migliore di se stessi. La cosa, se vale per loro, dovrebbe valere anche per noi. Ma tant’è, vedendo certe situazioni e seguendo certi dibattiti pubblici. Lo sappiamo, è attraverso la scuola, la prima e forse unica agenzia educativa rimasta oggi, che si aprono alla vita. Prima delle materie, degli indirizzi di studio, delle proposte culturali, delle mille nozioni ed informazioni.
Perché ho scritto “forse”? Perché ogni giorno a scuola lottiamo per ribadire che la prima agenzia educativa resta comunque la famiglia, anche se in troppe situazioni la crisi di molte famiglie finisce per scaricare sulla scuola responsabilità che alla scuola non competono.
Si aprono dunque alla vita. Ed in questa apertura, sono chiamati a capire al volo che la loro cruna dell’ago si chiama consapevolezza, quella che si traduce in passione, in dedizione, in responsabilità.
Tutti aspetti che vanno ad incidere sulla valutazione secondo merito, ma in termini non di giudizio finale, ma di ausilio al cammino ulteriore. Perché tutti impariamo facendo, anche sbagliando.
Non si può, dunque, non passare attraverso una valutazione, nella speranza però che il cuore della stessa valutazione sia la autovalutazione, cioè la crescita di consapevolezza del proprio valore come dei propri limiti. Perché nessuno è autosufficiente a se stesso, nessuno è un’isola.
Ma la stessa valutazione (scolastica ed esistenziale) non va assolutizzata, perché, lo ripeto, essendo uno strumento, ha come finalità la autovalutazione, cioè la propria autocoscienza verso la loro maturazione come persone, prima che come studenti che imparano.
Si può, di tanto in tanto, incappare in qualche brutto voto come in qualche giudizio affrettato da parte di compagni o altri? Sono normali anche queste cose, perché tutto fa esperienza, tutto aiuta a capire il valore ed i limiti di noi stessi, tutto può essere spinta verso il miglioramento continuo. Perché è sbagliando che si impara. E chi pretendesse di non sbagliare mai? Prima o poi la vita insegna che la testa da qualche parte la sbattiamo, e questo è un bene.
Per rimanere a scuola, la valutazione, anche se problematica (chi non ha incontrato docenti che hanno metri di giudizio diversi?), non ha come obiettivo la valutazione della persona, ma solo una qualche “misurazione” del proprio percorso di studio. Sapendo che lo sguardo finale è rivolto verso la personalità di ogni ragazzo, non solo verso alcune prestazioni su alcuni materie.
In questo sguardo, nessuno dei bambini e ragazzi non ha talenti, attitudini, sensibilità. Ma li hanno in modo diverso. Dovremmo rileggere bene la parabola evangelica dei talenti.
Valutare, per chiudere, è valorizzare i talenti, le passioni, le motivazioni, oltre alla preparazione. Cioè valorizzare la parte migliore di noi stessi. Solo in questo modo, la valutazione si può trasformare in autovalutazione, cioè in una investimento personalizzato. L’unico vero antidoto alla noia, alla demotivazione, veri nemici della scuola di oggi.
Questo è il vero senso del “merito”, oltre la cruda selezione darwiniana.
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