L’ultimo attacco alla scuola pubblica è stato assestato dal governo Monti.
Si legge in una bozza della prossima legge di stabilità che riguarda la scuola – e che è stata pubblicata su più quotidiani on line di settore – che «a decorrere dal 10 settembre 2013 l’orario di servizio del personale docente della scuola primaria e secondaria di primo e di secondo grado, incluso quello di sostegno, è di 24 ore settimanali».
Poi si aggiunge, per soprammercato, che nelle «sei ore eccedenti l’orario di cattedra il personale docente non di sostegno della scuola secondaria titolare su posto comune è utilizzato per la copertura di spezzoni orario disponibili nell’istituzione scolastica di titolarità e per l’attribuzione di supplenze temporanee per tutte le classi di concorso per cui abbia titolo nonché per posti di sostegno, purché in possesso del relativo diploma di specializzazione». Il che vuol dire che i titolari di cattedra con un orario di lavoro di 18 ore, sancito da un Contatto Nazionale Collettivo, dovranno lavorarne fino a 24 a parità di salari per andare a coprire gli «spezzoni» che si renderanno disponibili per ogni classe di concorso per la quale abbiano il titolo.
Non è una boutade né uno scherzo di cattivo gusto. È, stando alle notizie fin qui comunicate, e sperando siano speciose o che vengano al più presto corrette, una notizia caratterizzata giuridicamente che mira a tagliare, se ce ne fosse ancora bisogno, proprio quel settore che ha contribuito a dare più di altri del pubblico impiego negli ultimi decenni. L’ultimo tentativo di revisione della spesa fra i più penalizzanti e irrispettosi per la scuola statale.
È ignominioso che si possa solo minimamente pensare di aumentare di un terzo il carico del lavoro dei professionisti della conoscenza – il che richiederebbe almeno 500/600 euro come controvalore – con i 15 miseri giorni di ferie offerti a compensazione. Le motivazioni che hanno condotto a congegnare un simile, farraginoso provvedimento non sono difficili da intendere. Il provvedimento non è stato guidato da nobili intenti pedagogici ma dal semplice motivo che questo governo deve far cassa e lo fa sempre con gli stessi modi insolenti che ha usato finora per smantellare lo stato sociale.
La bozza, già di per sé lesiva per principio, contiene anche una sorpresina per il prossimo Natale, una sorta di controvalore non in denaro ma in giorni di ferie. Per quanto riguarda «il periodo di ferie retribuito del personale docente di tutti i gradi di istruzione», si legge infatti nella bozza di legge, questo viene «incrementato di 15 giorni su base annua». E già, perché l’esoso provvedimento non manca di contemplare, con tanta industriosa munificenza, anche un cadeau di non poco conto.
Il discorso appare abbastanza chiaro. Si tratta di un ulteriore, offensivo espediente consumato in silenzio, senza alcuna concertazione con il mondo sindacale o politico, contro i lavoratori della conoscenza. Come è possibile far calare dall’alto, senza il consenso delle parti sociali e bypassando il Contratto Collettivo Nazionale, un simile artificio che oltraggia e demotiva i lavoratori che ne sono interessati? Non si era forse detto che la scuola aveva già dato e che era tempo, per lei, di ricevere? Ecco i risultati, che sono del tutto sconsolanti e ingiuriosi. Ecco le risposte del governo tecnico alla richiesta, ribadita da più partiti, anche fra quelli che lo sostengono, di investire in cultura e istruzione. Se così stanno veramente le cose, oggi sarebbe un giorno brutto per nostro paese. Siamo in Italia, infatti, non in Francia o in Germania, dove si fa a gara per investire in scuola e cultura.
Ma qualcosa, nel frattempo, si è mosso per il mondo dell’educazione. Dobbiamo infatti registrare un intervento incisivo di poco fa, diramato dall’Ansa e firmato da Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura alla Camera, nel quale si criticano aspramente gli ultimi provvedimenti emanati e si ribadisce con forza che, con simili azioni legislative, è a rischio il «futuro» dell’istruzione pubblica. «Se dovessero permanere i provvedimenti previsti dalla legge di stabilità – scrive la deputata democratica – non sarà solo il cielo ad essere oscurato, ma anche il futuro della scuola».
La quale poi continua, con spirito combattivo e con toni anche aspri contro il governo, con queste significative asserzioni: «Negli ultimi 15 anni alla scuola è già stato chiesto tanto: tantissimo in termini finanziari, con la sensibile riduzione di risorse per il funzionamento e per gli organici, tantissimo ai lavoratori, il cui contratto non è rinnovato e gli scatti stipendiali sono congelati. È stato chiesto troppo per pensare di non comprometterne il funzionamento, a scapito della qualità offerta agli studenti. Neppure in una fase recessiva si può pensare di venir meno ad un diritto costituzionalmente sancito come il diritto allo studio: proprio in un momento di crisi il dovere della politica è garantire un futuro luminoso almeno ai giovani.
È dunque auspicabile un ripensamento del governo, in caso contrario sarà il Parlamento, che può e deve svolgere il suo ruolo in autonomia dagli altri poteri dello Stato, a sanare una situazione divenuta insostenibile per gli insegnanti, per gli studenti e per la scuola tutta».
L’impegno e la passione civile profusi da Manuela Ghizzoni al servizio della scuola – dimostrati anche nei confronti dei pensionandi di Quota 96 – sono fuori discussione e dovrebbero servire a dissipare, proprio nel giorno dello sciopero contro il governo Monti, voluto dalla Cgil, i tanti malumori che si trascinano rischiando di far esplodere una democrazia già così tanto provata. È chiaro che una dichiarazione di questo tenore e di questa responsabilità politica può servire a tranquillizzare gli animi dei lavoratori della conoscenza ma non può bastare. Essa deve essere accompagnata da un necessario e denso dibattito all’interno del Pd che porti ad un nuovo corso etico/sociale di cambiamento. La dichiarazione di Dario Franceschini, diramata anch’essa poco fa da Pdnews, lascia ben sperare: «In Italia il potere legislativo è ancora del parlamento. La legge di stabilità non è equa, dalla parte fiscale alla scuola. La cambieremo».
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