Attualità

Il Piano estate è la morte della scuola vera? C’è chi lo pensa, ma il problema è più complesso

Il Piano estate promosso dal Ministero dell’Istruzione e per il quale sono previsti finanziamenti importanti (più di 500 milioni complessivi, già assegnati alle scuole che hanno presentato i progetti) continua a far discutere.
Alcune critiche sono più che comprensibili: ci sono per esempio scuole che lamentano il fatto di non aver avuto finanziamenti pur essendo collocate in aree oggettivamente poco felici (periferie urbane) solo perché non hanno potuto “dimostrare” di avere alte percentuali di “dispersione”.
“Ma la dispersione – fanno notare – è stata calcolata facendo riferimento alle bocciature; così in pratica in diversi casi i soldi sono andati a finire alle scuole dove si boccia di più e a chi lotta in tutti i modi per non far uscire gli studenti dal circuito scolastico non ha avuto nulla”.
C’è poi chi fa osservare che una buona parte delle risorse verrà spesa non per le attività estive ma per progetti più o meno utili che prenderanno avvio addirittura in autunno inoltrato.
Qualcun altro segnala un problema: le scuole che in prima battuta era state escluse dalla distribuzione dei fondi e che sono state “ripescate” all’ultimo momento per qualche motivo (rinuncia di chi aveva ottenuto il contributo per esempio) ha avuto la notizia in “zona Cesarini” e adesso è in seria difficoltà per avviare le attività a partire dal 21 giugno.

Ma c’è un altro tema più strutturale ed è “quello – osserva Massimo Nutini, ex dirigente di enti locali e ora consulente dell’Anci – del mancato coordinamento tra le diverse iniziative comunque rivolte ad offrire opportunità di socializzazione ed esperienze educative, per tutto il periodo estivo”.
“Purtroppo – sottolinea Nutini – solo in una minoranza di casi si sono davvero messe insieme le teste (e le risorse) tra scuola, enti locali e terzo settore per articolare un’offerta che, se non completamente integrata, avrebbe dovuto essere almeno coordinata. Si era parlato, all’inizio di questa proposta di scuola aperta in estate, di un accordo quadro a livello nazionale tra tutti i soggetti per orientare la collaborazione, tra loro, sui territori. Poi non se ne è più fatto niente”.

“E’ un tema importante – conclude Nutini – perché le esperienze che si svolgeranno in questa ‘separazione’ avranno poco futuro, mentre sarà bene monitorare quelle realtà nelle quali si è riusciti a progettare un ventaglio di offerte coordinate mettendo assieme competenze, esperienze e risorse. Dove ci si è mossi in questa direzione si è probabilmente costruito un progetto non episodico che potrà riproporsi e crescere anche nei prossimi anni, prefigurando le trasformazioni di un sistema formativo più ampio ed un ruolo centrale della scuola e degli enti locali assieme, anche in questi processi sociali”.


Di tutt’altro tenore sono però i commenti di chi sostiene che il Piano estate rappresenta la “morte” della “vera scuola”, quella con la S maiuscola.
E quale sarebbe la vera scuola?
Ovviamente, secondo chi critica il Piano da questa prospettiva, si tratterebbe della scuola fatta di “belle” lezioni trasmissive, della scuola in cui si diffonde cultura e conoscenza, della scuola delle discipline (e magari anche della “disciplina” intesa come rispetto acritico del sistema e dell’apparato).
Sembra la critica di chi ha in mente la scuola del secolo scorso, ma per verità non è neppure così.
Perché la scuola del Novecento non è tutta assimilabile al modello classico basato su “lezione collettiva-compiti-studio-interrogazione-voto” e sullo spazio classe riempito con banchi e cattedra e con qualche divagazione laboratoriale riservata solo ad alcuni percorsi formativi.
La scuola del Novecento è stata anche la scuola attiva, a partire da John Dewey che per primo aveva intuito la centralità degli spazi educativi: nella scuola che il pedagogista statunitense aveva in mente al mattino si iniziava con un incontro di studenti e insegnanti nell’”agorà” un grande spazio dove si discuteva e si progettava insieme la giornata di lavoro.
La scuola del Novecento è stata anche quella di Freinet e, per venire a casa nostra, di Mario Lodi e Bruno Ciari dove l’ambiente era il punto di partenza per le attività di ricerca e di studio e dove si imparava a scrivere non per una necessità astratta di conoscere la lingua italiana ma per poter concretamente comunicare con classi lontane.
Ed è stata anche la scuola di Don Milani dove si leggeva la Costituzione e si faceva “ricerca sociale” intervistando gli operai e i contadini del territorio.
E allora perché mai tutte queste cose (dalla assemblea alla corrispondenza fino alla produzione di un giornale o di un sito WEB) non si potrebbero  realizzare grazie ai fondi del Piano Estate?
Si pensa forse che studiare a memoria il “Sabato del villaggio” o saper scomporre in fattori un polinomio di quarto grado sia più nobile che discutere di Costituzione e saper discutere in un gruppo di lavoro con cognizione di causa e in modo rispettoso?
E’ ovvio che – molto semplicemente – si tratta di capacità e competenze fra loro diverse, tutte in qualche modo necessarie ma senza che per questo si possano graduare per importanza.
Per la verità – per fortuna – di esperienze in questa direzione ce ne sono molte come ad esempio quella del progetto Bimbisvegli di Serravalle d’Asti dove da anni un gruppo di docenti e di altri operatori, in modo pressoché volontario, realizza nel periodo estivo attività didattiche perfettamente integrate con il curricolo scolastico.

Reginaldo Palermo

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