Ha scritto bene una editorialista del Fatto Quotidiano: “mentre noi ragioniamo in astratto, nelle scuole il conflitto si vive direttamente ogni giorno” e soprattutto in quelle dove la maggioranza musulmana, ma anche dove ce n’è un buon 20%, come la scuola del preside dell’Istituto Garofali, chiede il riconoscimento di sé stessi e del diritto di professare la propria fede religiosa. E proprio in quelle realtà gli educatori spesso sono costretti a prendere decisioni molto concrete e tormentate, considerato che ci sono pure bambini senza nessuna educazione religiosa e che in Italia c’è anche chi non pratica del tutto. E allora “è più che sensato chiedersi se un canto di Natale che racconta episodi del Vangelo sia realmente comprensibile, o se – soprattutto – il presepe stesso sia una rappresentazione adatta per tutti”.
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Chi da qualche tempo a questa parte, dopo l’ingresso di tanti extracomunitari di religione non cattolica, si straccia le vesti per avere il crocefisso sopra la cattedra (politici soprattutto a caccia di voti facili e facili consensi), sa pure che prima quel simbolo, che ci fosse o meno, non ha mai interessato granché né ai ragazzi, presi d’altro, né ai docenti, presi d’altro ancora.
Un profilo più laico della scuola, come dice Il Fatto, forse sarebbe una scelta più razionale di fronte al proliferare di tanti fedi all’interno di spazi così ristretti, come le scuole, una laicità “non tanto per sottrazione, ma per moltiplicazione”.
“Se è difficile trovare un equivalente musulmano del presepe, non sarà complicato invece trovare – rinunciare al bellissimo canto corale è un peccato – canti musulmani da cantare insieme agli altri. E se non si trovano, o se non si è capaci di spiegarle, meglio adottare canzoni che celebrino altri simboli del natale più neutri, come l’albero di Natale. Ma non solo per i bambini immigrati musulmani, anche per gli italianissimi bambini che di religione non sanno più nulla. Altre sono le sedi per imparare la religione: l’ora di religione, per chi la sceglie (da noi c’è fin dalla scuola materna, mentre non c’è l’ora di inglese) oppure la famiglia”.
“Non fare il presepe”, scrive l’editorialista del Fatto “non ci rende più deboli. Né quella del dirigente scolastico è una scelta di comodo, anzi. Esprime voglia di inclusione, di integrazione reale e di eguaglianza tra bambini provenienti da tradizioni troppo diverse perché se ne celebri una sola. Meglio sarebbe celebrarle tutte. Oppure nessuna, se mancano gli strumenti culturali che gli insegnanti dovrebbero cominciare ad avere. E pure gli alunni, magari in quell’ora di religione che dovrebbe diventare un’ora di storia delle religioni, se potesse essere sottratta all’intoccabile dominio della Chiesa cattolica sulla scuola italiana. In tempi di Isis, sarebbe davvero un’ora preziosa”.