I lettori ci scrivono

Il primo giorno del docente della scuola padano-veneta. Tra finzione e amara realtà!

Ad agosto 2019 avevo fatto una scelta, pensate quello che volete, ma ero deciso a firmare il contratto della Lombardia e passare dalla scuola statale a quella padano – veneta regionale.

Mi avevano promesso 300 euro netti al mese di aumento. La prospettiva era allettante, finalmente un governo era riuscito a trovare una soluzione ed io avrei potuto insegnare, per gli anni che mi mancavano alla pensione, con una retribuzione più alta ed andare con una pensione migliore.

A settembre 2020 iniziai il primo anno scolastico da insegnante della scuola padana ma già dai primi giorni di scuola, io e tutti i colleghi, che avevamo firmato il contratto regionale incominciammo ad avere dei dubbi.

Nel contratto c’era scritto che l’orario di servizio avrebbe subìto una modifica.
Per esigenze organizzative avremmo potuto avere più sedi e saremmo stati utilizzati per 10 ore in più alla settimana.

L’orario di servizio da 18 ore settimanali passava a 28.
In pratica la mia cattedra non era più quella dell’anno precedente, nella scuola statale. Niente più continuità didattica. Niente più libertà di insegnamento perché tutto doveva seguire l’indirizzo politico della regione. Anche i programmi didattici erano stati riscritti secondo il revisionismo voluto dalla scuola padano/veneta.

A 56 anni dopo aver insegnato per 30 anni nel triennio del liceo, mi ritrovavo ad avere tutte le prime classi e sei ore in una quinta del liceo paritario confessionale.
Nella scuola padana non esistevano più scuole pubbliche e scuole confessionali, tutte erano scuole regionali.

Le altre sei ore divise in tre pomeriggi presso l’assessorato regionale a Milano.
Ovviamente tutti i trasporti erano a carico mio e non abitando a Milano, le sei ore di lavoro diventarono 15…

Alla fine del primo mese, lo stipendio non arrivò, la segreteria amministrativa che era diventata telematica, disse che c’erano stati dei problemi sul sistema informatico.

La Regione stava definendo un nuovo portale che avrebbe permesso di consultare le buste paga, di aggiornare il proprio curriculum perché nel frattempo la funzione era diventata obbligatoria.

Insomma StipendiPA non era più attivo.

Era già ottobre… ero ancora senza stipendio, ero preoccupato. Dovevo pagare l’affitto, l’assegno di mantenimento per i miei figli che vivevano con la loro madre, una rata del finanziamento perché era arrivato un mega conguaglio del metano.

Come avrei fatto? Non ero il solo senza stipendio e senza certezze.

Passarono altri 25 giorni e arrivò l’accredito ma dell’aumento nemmeno un euro, anzi c’era l’addebito di un’addizionale regionale di 40 euro.

Fummo contattati dall’ufficio regionale che ci spiegò la nuova busta paga. L’aumento c’era stato ma il nuovo contratto di lavoro regionale padano veneto, come insegnante, era stato equiparato a quello dei docenti dei centri di formazione professionale regionale che purtroppo avevano una retribuzione minore rispetto a quella statale.

Nella busta paga gli scatti di anzianità erano stati azzerati. La voce “acconto” aveva la cifra complessiva con un asterisco.

Nelle note al punto dell’asterisco c’era scritto: “in attesa della nuova ricostruzione di servizio”.
La nuova ricostruzione avrebbe potuto anche essere negativa, nel senso che i docenti avrebbero dovuto restituire i soldi alla regione.

La realtà era purtroppo questa, più ore di lavoro, più sedi di lavoro con uno stipendio inferiore rapportato a quello statale.

Se fossi rimasto ad insegnare, nel liceo statale, per 24 ore, avrei ricevuto 600 euro lorde in più al mese.

(Nella scuola pubblica statale, ogni ora di insegnamento oltre le 18, sono circa 100 euro al mese).

Mi chiamò la dirigente della scuola confessionale, dove insegnavo alla quinta e mi disse che avrei dovuto seguite la classe durante gli esami di stato e che si aspettava un ottimo lavoro da parte mia. I genitori degli studenti erano molto esigenti, soprattutto per la valutazione finale. Dall’esito dell’esame sarebbe dipesa la valutazione, sulla mia attività professionale di insegnante, da parte dei genitori.

Si perché i famosi 300 euro di aumento erano vincolati al giudizio valutativo annuale da parte dei genitori degli studenti di tutte le classi in cui insegnavo.
Mi sembrava un incubo.

Volevo svegliarmi ma purtroppo era tutto vero…
Provai a chiamare il sindacato ma anche loro avevano avuto un ridimensionamento, obbligato dal governo, perché la normativa era cambiata.

Ogni regione con autonomia differenziata attuava un regime retributivo diverso pertanto Il Contratto collettivo di lavoro nazionale non esisteva più.
Allora incominciammo a ribellarci ma ricevemmo un richiamo direttamente dall’assessorato regionale che in caso di ulteriori agitazioni avrebbero attuato la procedura di licenziamento.

Nel frattempo erano stati banditi nuovi concorsi per le assunzioni di nuovo personale. Ovviamente gli stipendi iniziali sarebbero stati più bassi di quelli statali.
Provai a chiedere il trasferimento in Liguria, nel Lazio, in Calabria ma la risposta fu negativa.

Firmando il contratto regionale avevo perso la possibilità del trasferimento.
Non ero più un insegnante dello Stato ma della scuola padano – veneta.

Ero ormai un insegnante della scuola Lombardo-Veneta e la mia professionalità sarebbe dipesa dal comitato di valutazione che era composta esclusivamente da genitori cattolici… ed io ero laico e con idee politiche di sinistra e loro lo sapevano.

Eppure l’Unicobas Scuola & Università ci aveva avvisato, avevano organizzato nel 2019 convegni, manifestazioni e scioperi ma io e miei colleghi non eravamo interessati. Pensavamo soltanto all’aumento dei 300 euro…

La storia… finisce qui.

Siete ancora convinti che la regionalizzazione dell’istruzione sia positiva?

Il racconto breve: Il primo giorno dell’insegnante della scuola padano-veneta (regionalizzazione). Tra finzione e amara realtà!

Paolo Latella

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