Il concetto “competenza” non appartiene alla cultura della scuola, a tutti i livelli.
Il parlamento non lo possiede
La legge 107/2015 ha orientato il sistema scolastico a “l’innalzamento delle competenze delle studentesse e degli studenti” e le ha elencate al comma 7 con la denominazione: “Obiettivi formativi ritenuti prioritari”.
Se ne trascrivono alcune:
più della metà delle finalità esposte è sbagliata: il legislatore ha fatto confusione, non è stato in grado di discernere i fini dai mezzi.
Il ministero è nella nebbia
Il ministro Marco Bussetti, alla festa della lega di Romagna, ha espresso le linee del cambiamento in atto: attualmente ”I nostri studenti devono avere competenze, che tradotto in pratica vuol dire saper fare, e ci stiamo completamente dimenticando delle attitudini”.
Un’asserzione da cui traspare una nebulosità concettuale inaccettabile.
La competenza è un’entità composta.
Le sue componenti sono: attitudini e conoscenza.
A scuola si brancola nel buio
Il quotidiano ItaliaOggi, il 12/12/17 scrive: “I Prof. ammettono: siamo impreparati a certificare le competenze” e il Comitato scientifico nazionale chiede la “progettazione di una o più azioni strategiche nazionali di formazione sui temi della didattica per competenze e innovazione metodologica e della valutazione degli allievi”.
L’indeterminatezza del traguardo formativo vanifica il lavoro dei singoli docenti.
All’origine di questa paradossale situazione è collocato il modello di scuola cui tutti fanno riferimento: la didattica universitaria ne è l’architrave.
La didattica accademica è finalizzata alla trasmissione degli argomenti disciplinari.
L’insegnamento cattedratico li veicola.
Una modalità coerente sia con una struttura parcellizzata degli insegnamenti, sia con uno scenario culturale che, nel breve periodo, è stabile.
Il terreno su cui opera la scuola è molto, molto diverso.
Il rapporto Istat 2017 ha certificato che il 65% di quanti accedono alla scuola primaria sarà impiegato in lavori che oggi non esistono.
Ne consegue:
Ecco il nocciolo della questione: da un lato si sono le discipline, strutturate, ben definite, depositate nei sacri testi; dall’altro lato le discipline sono da analizzare per individuarne le potenzialità formative.
Negli atenei le discipline sono un prodotto finito e, come tale, sono somministrate.
Nella scuola, per promuovere competenze, non ci si può sempre rapportare allo studente come se fosse un consumatore.
L’aspetto vitale delle discipline è da valorizzare: la loro immagine deve essere dilatata.
Si deve far risaltare la loro vitalità, si devono far emergere i processi del loro sviluppo.
In tal senso esortano gli inascoltati regolamenti di riordino del 2010, che, “tra i punti fondamentali e imprescindibili che solo la pratica didattica è in grado di integrare e sviluppare” individuavano “la pratica dei metodi d’indagine propri dei diversi ambiti disciplinari”.
Due sono le parole chiave, metodo e pratica:
Le discipline hanno la vitalità dei folletti, saltellano per il mondo e le conoscenze sono le tracce da loro lasciate.
Il loro spirito vitale risiede nell’energia, nella curiosità, nella determinazione e nella vivacità del loro carattere.
Quale meraviglia manifestano quando percepiscono nuovi problemi, quanta attenzione dimostrano quando ne circoscrivono l’ambito!
E che dire della precisione che esibiscono quando scavano per trovare la soluzione e dei trilli di gioia che accompagnano la cattura di nuove questioni.
Il significato di competenza è sotteso all’organizzazione didattica indicata: comportamento esibito da chi affronta una situazione ignota.
Il successo deriva dal possesso delle capacità, delle abilità e delle conoscenze necessarie.
Alcune esemplificazioni sono visibili in rete:
Enrico Maranzana
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