Attualità

Il punto sulla “DaD”, tra ministri entusiasti e studenti scontenti

La notizia l’avete già letta sulla nostra testata: secondo un’inchiesta di Skuola.net uno studente intervistato su tre è convinto che, senza la DaD, avrebbe avuto voti più alti negli ultimi due anni scolastici. Sarebbe aumentato, a causa della DaD, il ricorso alle lezioni private (molte delle quali, comunque, “a distanza”), perché i ragazzi, con la Dad, si sentono meno preparati.

Che succede? All’apparir del vero — parafrasando Leopardi — la fiducia nella tecnologia applicata alla didattica, misera, cadde? Possibile che la “Didattica Digitale Integrata” abbia già evidenziato tutti i suoi limiti? Possibile che veramente la fede nello “smart teaching” non renda poi “quel che promette allor”? Possibile che “di tanto inganni i fidi suoi”?

La tecnologia come fede?

Qualche “eretico” (della levatura di un Crepet e di un Galimberti) lo aveva già detto: la didattica è tale se trasmette emozioni attraverso il contatto diretto tra docente e discente. Diretto, ossia in presenza, “fisico”; cioè fatto di corpi, gesti, sguardi, voci vive, pensieri e sentimenti senza mediazioni, senza interruzioni, senza impossibilità di contatto oculare, senza limitazioni all’interlocuzione diretta ed immediata. Tutto il resto (filmati, file audio, presentazioni in PowerPoint, quiz informatici, mappe concettuali a colori, effetti speciali in 3D, etc. etc. etc.), sono sussidi meravigliosi. Meravigliosi, davvero; ma pur sempre sussidi. Nulla di più.

La differenza tra una didattica efficace ed efficiente e una “non didattica”, la fanno il docente e la sua presenza fisica, tra discenti fisicamente presenti: primo passo per renderli presenti anche mentalmente, cognitivamente, spiritualmente.

Un pessimo docente, ancorché aiutato da sussidi meravigliosi, non potrà non produrre una didattica ininfluente sulla crescita del cittadino, sulle sue conoscenze, sul suo pensiero critico (e sulle “competenze” che da tutto ciò, e non da altro, derivano). Un ottimo docente, pur senza quei meravigliosi sussidi, otterrà invece risultati didattici sicuramente migliori, perché saprà — a prescindere dai mezzi — infondere negli allievi le emozioni da lui stesso provate nello scoprire le conoscenze da trasmettere ai giovanissimi. A patto, naturalmente, che questa trasmissione avvenga in presenza.

La DaD è comunque cosa buona e giusta?

L’ottimo Ministro Bianchi, tuttavia, non la pensa così. «Il problema non è stato la DaD ma arrivare alla DaD con un modello vecchio, mettendo in mezzo un pc», ha dichiarato Repubblica. Bisogna “rivitalizzare” la Scuola dedicando «grande attenzione agli strumenti e alla capacità di usarli». Intendendo per “strumenti” il “pc”, appunto. Perché «ora abbiamo scoperto che si può lavorare da casa». Anche se «la presenza è importante, lo è più di prima, soprattutto per fare più ragionamento insieme». Però la Scuola «non abbia paura degli strumenti» e «abbia il coraggio di aprire le porte, rischiando». Anche perché «c’è una grande voglia di rivedere i contenuti, per preparare i ragazzi alla vita quotidiana. Bisogna tornare ad una scuola che formi non una élite ma un Paese, con la solidarietà non come fatto caritatevole; a scuola si compongono le diseguaglianze, da lì si parte per costruire la società».

Dobbiamo ringraziare il CoViD?

Insomma: il problema della Scuola italiana era la mancanza della DaD, ma ora, finalmente, ce l’abbiamo. Di conseguenza (?) possiamo anche rivedere i contenuti, così prepareremo i ragazzi alla vita quotidiana, comporremo le disuguaglianze (?), e da lì partiremo per costruire la società.

Parole bellissime; le quali — al di là dei nessi logici tra le singole proposizioni — riempiono il cuore di speranza.

L’unico problema della Scuola italiana sono gli strumenti?

Anche perché fanno dimenticare le vere priorità della Scuola italiana (priorità che forse questo Governo, in totale discontinuità coi Governi degli ultimi 30 anni, dà già per scontate?).

Prima priorità: smetterla di considerare i docenti delle Scuole alla stregua di impiegati esecutivi che devono eseguire una fantomatica “pedagogia di Stato”, esplicitamente proibita dall’articolo 33 della Costituzione; di conseguenza, far uscire i docenti stessi dall’ambito di applicazione del D.Lgs. 29/1993, che li relegò nel Pubblico Impiego, privatizzandone il rapporto di lavoro (mentre i docenti universitari, giustamente, sono “pubblici dipendenti”, ma non “pubblici impiegati”).

Seconda priorità: trattare i docenti da professionisti anziché da “missionari”: che vuol dire farli tornare alla perduta dignità (e non al servilismo), pagarli da professionisti e ascoltarli come si ascoltano i professionisti (cosa che caratterizza tutti i Paesi europei tranne l’Italia).

Terza priorità: varare leggi che stanzino finalmente — sui 230 miliardi del “Recovery Fund” — 35 miliardi in più rispetto agli spiccioli stanziati finora (per cablare gli edifici scolastici — che nel frattempo crollano —, per la DaD e per il “Piano Scuole Estate”). Anche perché è urgente (per motivi sanitari oltre che didattici) ridurre di molto il numero degli alunni per classe: a meno che non ci sia nessuna reale intenzione di intervenire sui nodi strutturali dell’istruzione pubblica.

Cambiare gli strumenti per non cambiare rotta?

Tutto il resto (cambiare gli “strumenti” per non cambiare nulla?) potrebbe altrimenti apparire fuffa (se non propaganda). Se cambiassimo tutto (lo strumentario) senza cambiare un bel nulla, continueremmo a spingere la Scuola italiana verso quella stessa deriva cui da 30 anni è stata — non per caso — sospinta.

Alvaro Belardinelli

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