Premesso che il rapporto 2015 “Uno sguardo sull’istruzione: indicatori dell’OCSE”, che riguarda i 34 Paesi dell’OCSE e alcuni dei Paesi partner, in pratica ripete le stesse osservazioni di sempre: scarsa spesa per l’istruzione, altissimo numero di NEET, corpo docente fra i più vecchi in assoluto, scarso utilizzo delle tecnologie a scuola e via elencando, si affaccia qualche nota positiva, quale la frequenza quasi universale dei bambini alla scuola dell’infanzia e il superamento del gap fra ragazzi e ragazze nella frequenza all’istruzione terziaria.
Ciò detto, interessante appare l’analisi che l’Adi, Associazione docenti italiani, mette a punto per descrive lo stato dell’istruzione terziaria in Italia.
Eccolo:
A)In Italia il corpo docente è più anziano rispetto a quello di qualsiasi altro Paese dell’OCSE. Nel 2013, in Italia, il 57% di tutti gli insegnanti della scuola primaria, il 73% degli insegnanti della scuola secondaria superiore e il 51% dei docenti dell’istruzione terziaria avevano compiuto 50 anni di età o li avevano superati, le percentuali più alte registrate rispetto ai Paesi dell’OCSE e ai Paesi partner. Essendo prevedibile che molti di questi docenti andranno in pensione durante il prossimo decennio, l’Italia si trova di fronte a un’opportunità senza precedenti per ridefinire, dice anche l’Ocse, la professione
B) Il rapporto insegnanti/alunni nella scuola primaria è, come noto, più basso rispetto alla media OCSE e dell’UE; nella scuola secondaria inferiore e superiore il rapporto è invece simile agli altri Paesi
C) Gli insegnanti italiani guadagnano meno e gli incrementi sono esclusivamente collegati all’anzianità
D) La normativa italiana non prevede nessuna regolare valutazione degli insegnanti o dei dirigenti
E) Gli insegnanti italiani non utilizzano spesso a scuola le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (TIC).
E poi:
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A)L’Italia ha chiuso il divario fra maschi e femmine nel tasso dei laureati e abbiamo superato la media OCSE.
Le donne rappresentano solo il 37% dei docenti nell’istruzione terziaria, una percentuale inferiore alla media OCSE che si attesta al 41%, ma la quota di donne docenti universitarie potrebbe aumentare con il pensionamento dei colleghi più anziani. In tutti gli altri livelli d’istruzione, l’Italia ha una più ampia quota di donne insegnanti rispetto alla media dell’OCSE, in particolare nell’istruzione pre-primaria e primaria, dove quasi tutto il personale docente è di genere femminile.
B) Nella scuola secondaria le ragazze sono più brave dei ragazzi, in particolare in lettura. Il divario di genere nei punteggi in lettura si restringe però notevolmente quando avviene su testi I ragazzi sembrano più motivati e impegnati quando leggono i testi on-line.
C) In Italia la frequenza della scuola dell’infanzia è quasi universale, ma meno diffusa tra i figli degli immigrati.
Ed ecco il vero punto nodale dell’intero rapporto: cosa dicono in effetti gli indicatori secondo l’Adi?
Il primo indicatore soggettivo è lo sheepskin effect, il cosiddetto effetto “pezzo di carta”: un diplomato su tre e un laureato su cinque ritengono che la loro attività lavorativa potrebbe essere svolta anche con un titolo di studio inferiore a quello da loro posseduto, sintomo di una domanda di lavoro generica e poco orientata alle professionalità elevate.
Il secondo indicatore soggettivo introduce il confronto con il livello d’istruzione specifico e consente di ottenere per la prima volta in Italia una misura dell’under-education non fondata sul metodo statistico. Tra i laureati prevale nettamente l’over (18 per cento) rispetto all’under-education (5,7 per cento), confermando ancora la bassa domanda di lavoro qualificata espressa dal nostro sistema produttivo. Mentre tra i diplomati il fenomeno di under-education (18 per cento) supera di poco quello dell’over-education (16 per cento). Ciò denota una svalutazione del titolo di scuola secondaria superiore che, essendo sempre più comune, tende ormai a essere percepito come un livello di istruzione base.
Per il terzo indicatore soggettivo, è interessante notare che l’under-skilling rappresenta quote molto basse sia per i diplomati (3,2 per cento) che per i laureati (2,3 per cento), mentre le misure statistiche tendono a sovrastimare il fenomeno. Discorso ben diverso è quello che riguarda l’over-skilling, che risulta sovradimensionato rispetto alle percentuali presenti in altri studi: tra i laureati raggiunge il 35,6 per cento, mentre tra i diplomati è pari al 29,2 per cento. Ciò ha diverse spiegazioni: la modesta domanda di lavoro qualificato e lo scarsissimo grado di integrazione tra il mondo della scuola e quello del lavoro.
Se passiamo poi agli indicatori oggettivi, l’over/under-education su base statistica si basa sulla coerenza tra titolo di studio dell’individuo i-esimo rispetto alla corrispondenza fra ciascun grande gruppo professionale e un certo titolo di studio stabilito dalla classificazione delle professioni Isco (International Standard Classification of Occupations). Un quinto dei lavoratori è over-educated, ma un altro 20 per cento di diplomati sono under-educated, spia di un certo disordine del sistema.
Il secondo indicatore oggettivo di over/under-education misura la coerenza tra istruzione dell’individuo i-esimo e valore modale (la massima frequenza) del titolo di studio per professione: un quinto dei diplomati e oltre un terzo dei laureati non è ben abbinato rispetto alla distribuzione dell’istruzione per quella mansione.
Le donne sono meno esposte, come i diplomati rispetto ai laureati, ma cambia la composizione. È maggiore nel settore privato, mentre al crescere dell’età si assiste a un (lento ma incompleto) allineamento tra capitale umano e mansioni. L’avere impieghi atipici o con bassi livelli di soddisfazione lavorativa espone a sistematico sotto-inquadramento. L’over-education è decrescente rispetto alla retribuzione e al reddito familiare: un’ulteriore prova che il network familiare rappresenta il maggior fattore di protezione individuale.
Insomma, l’over-education è un fenomeno diffuso e multiforme. I livelli d’impiego del capitale umano sono tali da rendere inevitabile una riflessione più ampia sulla necessità di indirizzare le imprese verso produzioni di beni e servizi innovativi. Il versante pubblico può fare molto: dovrebbe aggiornare il sistema scolastico e formativo e sostenere la ricerca di qualità, ma anche dare sostegno in maniera selettiva alle imprese che innovano. Al di là delle sensibilità sul costo sociale provocato da questo spreco e sulle differenze che possono nascondersi tra una lettura qualitativa o quantitativa del capitale umano, è indubbio che ciò comporti inefficienze gravi e un costo economico ingente per gli individui, le famiglie e lo Stato. Una riduzione dell’over-education altro non è che un recupero di efficienza del sistema scuola-lavoro.
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