Attualità

Il Recovery, la resilienza ed il compito critico-culturale della scuola

Lo devo ammettere: la parola “resilienza” mi ha stancato.

Come è noto, è stata inserita, legittimandola ufficialmente, nelle duecento e passa pagine del Recovery che Mario Draghi ha inviato alla Commissione Europea per il prestito degli oltre duecento miliardi, necessari per la ripartenza italiana dopo la tragica stagione del Covid.

Il Recovery Plan ha per titolo, infatti, “Piano nazionale di ripresa e resilienza”.

A volte, a me pare, ci si attacca alle parole, se ne innamora, sperando di trovare, così, qualche appiglio di speranza. Sentimento giusto, ci mancherebbe. Ma il problema è che troppe volte ci si ferma alle parole, quasi credendo, così, in un loro potere taumaturgico. Per dire: “basta la parola”.

Ed, infatti, non basta presentare un piano ambizioso, che, nella sostanza, fa aumentare di non poco il nostro già grande debito pubblico (tant’è che la Francia e la Germania hanno chiesto poco più di un decimo di risorse all’Europa) perchè tutto torni a posto.

Si spiega così un passaggio dello stesso Mario Draghi: “Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano. Sono certo che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti”.

Parole forti, che Draghi ha voluto ribadire perchè, ovviamente, consapevole della sfiducia in tanti Paesi dell’UE sulla nostra capacità di coerenza e responsabilità.

Per cui, il vero valore aggiunto di questo governo rispetto al precedente, mi verrebbe da dire, è lo stesso premier Draghi, garante per l’Europa. Lo sarà anche da presidente della Repubblica dopo Sergio Mattarella? Vedremo.

Dunque, il richiamo alla resilienza.

Come penso sia noto, la resilienza è una proprietà fisica di alcuni materiali, per la quale essi, in alcune peculiari situazioni, tendono a recuperare lo stato precedente ad una alterazione subita. Nel mondo fisico ideale i corpi si muovono con moto rettilineo uniforme. Se essi vengono in qualche modo perturbati, muta il movimento. Qualora il corpo fosse resiliente, dopo un po’ di tempo, assorbita la perturbazione, il moto torna rettilineo uniforme.

Se adattiamo al nostro essere umano, alla nostra storia, questo concetto la resilienza diventa la capacità di ritornare, dopo un trauma, alle condizioni precedenti il trauma.

Questo vale se le cause del trauma sono insite nel trauma. Ma se sono precedenti allo stesso trauma, se, in poche parole, noi tutti, come persone, come convinzioni, comportamenti, come Stato, in realtà non abbiamo fatto altro che mantenere, anche in questo trauma del Covid, i vizi ed i limiti precedenti? Pensiamo al nostro grande debito pubblico, alle tante disuguaglianze, ingiustizie, ecc..

Se, un anno fa, dopo la prima ondata del Covid, tutti abbiamo invocato la solidarietà, oggi, invece, sembra dominare una sorta di “ognun per sè”.

La resilienza, dunque, cioè il credere di tornare al pre-Covid, è un aiuto vero, oppure una maschera di comodo?

La resilienza, in altre parole, è un aiuto a migliorarsi, oppure un freno?

Del resto, che i negazionisti lo credano o no, le epidemie ci sono sempre state. Ed è straordinario e di grande impatto per ciascuno che la ricerca scientifica, pur con tante titubanze e difficoltà, abbia garantito i vaccini dopo solo un anno e poco più dall’esplosione del fenomeno.

Ma la scienza non può tutto. Pensiamo, ad esempio, alla liberalizzazione dei brevetti, per dare una mano concreta a tutti, in particolare ai Paesi più in difficoltà di noi.

Come ci ha insegnato qualcuno, il limite della scienza non è scientifico.

Sapremo imparare, anche grazie al Covid, alcuni valori, oggi forse un po’ latitanti, perchè immolati al nostro mondo individualista, se non narcisista?

L’UE, come contropartita al Recovery, ci chiede riforme, ma riforme vere, strutturali, di lungo periodo. Come si è espresso il premier Draghi, bastano duecento e passa pagine di un Piano, per cambiare in meglio? Non bastano.

Il vero superamento della crisi è la coscienza critica, aperta, non individualistica, non ideologica.

Ciò che la scuola, guarda caso, al di là di banchi a rotelle, di edifici a volte precari, di rischi di assembramenti da evitare con rigidi protocolli: proprio ciò che la scuola, ogni giorno, cerca di insegnare, anzitutto testimoniando, nella vita di classe, il dialogo aperto e costruttivo, ai fini di un conoscere sui vari campi del sapere e del mondo, ma, prima ancora, sui vari campi del sapere di noi stessi. Il profumo culturale del fare scuola.

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Gianni Zen

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