Parecchi anni fa avevo scoperto sul sito dell’ISTAT un utilissimo strumento: si trattava di un calcolatore, tuttora disponibile, che è in grado di fornire, dopo aver inserito i dati opportuni, quale sia la soglia di povertà assoluta di una famiglia. “La soglia di povertà assoluta – si legge sulla pagina del calcolatore ISTAT – rappresenta il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia […]
Una famiglia è assolutamente povera se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a tale valore monetario”(https://www.istat.it/it/dati-analisi-e-prodotti/contenuti-interattivi/soglia-di-povert%C3%A0).
Inserendo i dati, si appura che una famiglia composta un figlio tra i 4 e i 10 anni e due genitori deve avere una capacità di spesa mensile pari o superiore a 1.434,87 euro. La cifra è calcolata per il 2021 – possiamo quindi supporre che adesso, con la ripresa sensibile dell’inflazione, superi i 1.500 euro.
Immediate le conclusioni: un insegnante all’inizio di carriera si ritrova con uno stipendio che definire “misero” è usare un eufemismo. Quante volte è stato ripetuto che i docenti italiani sono sottopagati? L’ultima volta, ci risulta, su La Repubblica del 28 gennaio scorso, che, oltre ad aver “scoperto” l’esistenza del calcolatore ISTAT di cui sopra, dedica due intere pagine all’argomento.
Ci sono novità in questo campo, per quel che riguarda il governo Meloni? Sì, qualcuna c’è. Ad esempio, tutte le volte che un neo-primo ministro ci racconta che gli stipendi dei docenti italiani si devono adeguare alla media degli stipendi dei docenti europei, non possiamo che sbadigliare annoiati. O, se proprio siamo persone curiose, attendere il momento in cui tale affermazione verrà smentita dai fatti.
Giorgia Meloni, invece, ha tirato i remi in barca già nel momento aurorale, quello del discorso programmatico alla Camera dei deputati. Meloni dichiara di voler “garantire salari e tutele decenti”(https://www.governo.it/it/articolo/le-dichiarazioni-programmatiche-del-governo-meloni/20770), affermazione piuttosto vaga e ben lontana dalla sua promessa al Meeting di Rimini 2022, che poi era quella, trita e ritrita di “adeguare gli stipendi degli insegnanti italiani alla media degli stipendi degli insegnanti europei”. La stessa cosa, nella stessa sede, prometteva Letta. A rigore, nel discorso programmatico, i “salari” sono quelli degli insegnanti soltanto perché, in quel passaggio, Meloni sta parlando di scuola; sull’ambiguità dell’aggettivo “decenti” non vale la pena di discutere. Quali saranno le “tutele” mi sa che lo vedremo presto, appena metteranno mano alla parte normativa del CCNL..
Altra “novità”, rispetto alla necessità di migliorare gli stipendi degli insegnanti, è la recente trovata del ministro Valditara. Il quale, forse perché si occupa professionalmente di Diritto romano, è portato a guardare al passato più che al presente. Egli ha meritevolmente scoperto un modo per alzare gli stipendi dei lavoratori della scuola, pur risparmiando: la reintroduzione delle “gabbie salariali”. Abiti in un posto in cui il costo della vita è meno caro? Guadagnerai di meno – e viceversa. Sembra un giusto ragionamento, all’insegna del buon senso.
Peccato che le gabbie salariali il nostro Paese le abbia sperimentate a lungo: inaugurate subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, attraversarono tutti gli anni Sessanta, sino a che non le spazzarono via le proteste operaie del 1969, per poi essere abolite definitivamente nel 1972. Il risultato prevedibile, se si reintroducessero le “gabbie salariali”, sarebbe quello di contribuire ulteriormente all’emorragia di giovani che si spostano dal Sud al Nord, senza di fatto migliorare la condizione dei lavoratori del Nord. Infatti qualcosa mi porta a pensare che al Nord non si recupererebbe d’un sol colpo il 25% di potere d’acquisto perso nell’ultimo quarto di secolo.
C’è ancora un altro aspetto da mettere a fuoco: non soltanto lo Stato paga poco i suoi insegnanti, ma non dà loro nemmeno il dovuto. A questo proposito rimangono aperte due questioni gravi: la prima riguarda il mancato riconoscimento dello scatto stipendiale del 2013.
Il blocco non è irrilevante dal punto di vista economico: molti lavoratori, a causa proprio di quel blocco, dovuto a suo tempo ad un intervento legislativo di carattere emergenziale (legge n. 122/2010) sono andati in pensione senza aver maturato l’ultimo scatto di anzianità. E tutti i docenti che nel 2013 avrebbero dovuto maturare lo scatto hanno avuto un danno economico diverso a seconda della loro posizione stipendiale, ma comunque non insignificante.
La seconda questione è ugualmente scabrosa e riguarda i tempi di attesa del TFR/TFS. Un lavoratore della scuola che vada in pensione con il massimo dell’anzianità lavorativa dovrà attendere almeno 27 mesi per avere i suoi soldi: è evidente la disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati, com’è altrettanto evidente che, vista l’elevata età anagrafica dei pensionati, attese così lunghe sono del tutto ingiustificate e possono incidere negativamente sui progetti di vita dei singoli, tanto più che la “liquidazione” arriverà rateizzata in due o tre tranche.
Era il settembre del 2000 quando il ministro della Pubblica Istruzione, Tullio De Mauro, dichiarava che lo stipendio dei professori era “da fame” e che “ai professori si chiede tutto ma non si vuole dare niente”.
Dopo 23 anni siamo allo stesso punto: anzi, la situazione è peggiorata nettamente. Gli “stipendi europei” questo nuovo Governo li ha già eliminati in sede programmatica; la fantasiosa trovata di Valditara, quella di pagare i docenti a seconda della zona d’Italia in cui vivono, si potrebbe saldare perniciosamente con il perfido progetto dell’autonomia differenziata.
Aspettiamoci di tutto, dunque. Introdurre differenze stipendiali in base al presunto merito o alla zona geografica è la brutta scorciatoia praticata da chi vuole spendere sempre meno per la scuola pubblica. La via d’uscita per una situazione così scabrosa ed offensiva nei confronti dei lavoratori della scuola, ce l’hanno indicata nel 1969 gli operai in lotta: “Stessa paga per uguale lavoro”. E noi aggiungiamo: purché la paga e il lavoro siano dignitosi.
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