Il 23% del totale della popolazione universitaria del Mezzogiorno è emigrata nelle università del Centro-Nord e questo ha determinato, secondo la Svimez, in modo inequivocabile una molteplicità di effetti negativi conseguenti a questa vera e propria emigrazione universitaria dal Sud.
La prima conseguenza negativa è la perdita di capitale umano altamente qualificato, che si traduce in un forte freno alle capacità di sviluppo; poi la riduzione delle risorse finanziarie alle Università del Sud, dovute sia ai minori introiti delle rette e sia alla riduzione dei finanziamenti statali, correlati al numero degli iscritti. Già questi due fattori, insieme, non garantiscono un’offerta formativa pari a quella dalle Università del Centro-Nord.
E non basta. L’emigrazione dei giovani incide, sia sulla distribuzione del reddito (retribuzioni dei docenti, i costi dei servizi didattici e quelli delle infrastrutture, quantificabili in poco più di un miliardo in media all’anno) e sia sui consumi (valutabili in circa due miliardi l’anno), sempre a svantaggio del Sud.
Infine, l’aumento dei redditi da lavoro nel Centro-Nord, dove il laureato del sud tende a rimanere e produrre dopo il conseguimento della laurea, quantificabile in circa 1,2 miliardi l’anno.
Da qui Svimez stima una riduzione del tasso di crescita del Pil del Mezzogiorno di quasi il 2,5%, pari a una media annuale di -0,20%. Tenendo conto che in tale periodo nel Sud si è registrata una caduta del Pil del 10%, è evidente che, trattenendo nelle regioni del Mezzogiorno tutti gli studenti universitari meridionali sarebbe stato possibile ridurre la flessione del prodotto lordo di circa un quarto. Tra il 2007 e il 2018 il differenziale di crescita del Pil tra il Centro-Nord e il Sud è stato del 9,6%, senza la fuoriuscita degli studenti universitari meridionali sarebbe stato del 5,3%, quasi un dimezzamento.
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