I lettori ci scrivono

Il talento del calabrone. Una metafora della vita

Ho visto il film Il talento del calabrone. L’ho atteso con molta curiosità e il finale è stato stupore. Scorrevano i minuti e mai una volta è calato di tensione, avvolgendomi di tante emozioni dalle mille sfaccettature. Mi sono commossa, come non accadeva da anni, perché ciò di cui si parla va ben oltre ciò che immagini di attendere.

Ciascuno interpreta a suo modo ed io l’ho fatto in chiave metaforica.
Alla parola calabrone sfido chiunque a non avere l’immagine chiara di fronte agli occhi, di quell’insetto carnoso e nero, che nel volare emette un ronzio fastidiosissimo. Risfido se alla sua presenza vicinissima, chiunque non si scansa istintivamente.
Il calabrone fa paura, incute timore.

Il timore, già. In quanti hanno avuto il coraggio di uccidere un calabrone? Sta qui il suo talento? Incutere timore, per non essere ucciso?
Quando ero piccola, nonna si raccomandava sempre di evitare i calabroni, perché la loro puntura sarebbe stata molto fastidiosa, se non letale.

Dopo anni scopro che il calabrone tende ad evitare l’uomo, a meno che non si avvicini in prossimità del suo nido. Ecco: è in quel momento che attacca, esattamente come funzionano i meccanismi di difesa in ogni essere vivente.
Molte volte ci ripenso e mi dico: -Se mi avesse insegnato ad avere paura di altro, o meglio ad evitare altro o altri? –

Ripenso ora che nonna non mi ha insegnato ad uccidere i calabroni, ma solo ad evitarli.
Ripenso che forse il concetto ha lo stesso significato: evitare e uccidere, ma uccidere dentro evitando chi fa paura.

La paura è una delle emozioni più forti, quella che ti crea confusione e ti scompiglia l’animo. I nostri gesti inspiegabili nella convivenza con gli altri nella società, credo siano dettati proprio dalla paura, che il più delle volte è la paura prima di tutto di se stessi. Il fare paura invece ci fa sentire forti e con la paura stessa, viviamo nella convinzione di poter dominare su chi vediamo, con occhi diversi. Alla base di tutto ciò, ci stanno tutta una serie di conseguenze che riassumo a random: emarginazione, solitudine, incomprensione, derisione, omertà.

E se ora vi è venuta in mente una parola per riassumere quelle che ho elencato, forse siete entrati nell’ottica di vedere il calabrone, come una vittima della nostra società: che annienta, omologa e ferisce.

Purtroppo succede che come un mantra, con questa ideologia ci cresciamo, già da bambini e ne diventeremo forse gli adulti insicuri, dove il nostro talento si racchiude attorno al timore, come il guscio di un uovo fa con il tuorlo.

Dopo i calabroni, le raccomandazioni di nonna, penso alla scuola, tanto provata, umiliata e ferita in questo momento. Dove per scuola non intendo certo l’edificio in sé, ma tutti quegli alunni, con particolare attenzione agli adolescenti, già costretti a vivere nella gabbia del loro corpo in trasformazione.

Succede che si dimentica o forse si mettono solo in secondo piano, tutte quelle lotte per cui ci si è battuti da sempre. Ci sono lotte e lotte: quelle per cui ci credi davvero e ne fai un modus vivendi e quelle che compi per solo obbligo, anche con tanta superficialità.

Mi soffermo a mettere sullo stesso piatto altre due parole: timore e talento, dove per quest’ultimo si intende proprio l’essere uguali a tutti. Non di certo la dote di ogni persona, perché molto spesso può essere causa di una grande macchia d’acquarello nero, che si espande su un foglio di carta.

Potrete capire appieno questo mio scritto se lo rileggete dopo aver visto il film “Il talento del calabrone” di Giacomo Cimini, che mi piace vedere come un thriller, in primis dei meandri e gli interstizi della nostra mente. Dove c’è tutto quello che per timore, un essere umano può compiere. Ciascuno con il proprio, per motivi suoi.
Un plauso al regista per la sua sensibilità, per i temi trattati, che vanno al di là di uno schermo e diventano vita vera.

Valentina Usala

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