L’aspetto che colpisce un po’ delle rappresentazioni “classiche” al teatro greco di Siracusa, in svolgimento in questi giorni, riguarda la difformità tra l’epoca in cui le tragedie furono concepite e la loro odierna messa in scena. Mentre il testo, dal punto di vista della traduzione, è per lo più aderente all’originale greco, secondo la poetica del drammaturgo, e quindi rispettoso dell’impianto filologico letterario, per quanto invece riguarda la rappresentazione in sé, ama avventurarsi tra i meandri di una sperimentazione teatrale in base alla sola sensibilità del regista.
Impossibile dunque assistere a opere di quei tragici (ma anche no come Senofonte), sforzandosi quanto più è possibile di riprendere le messe in scena originali dell’età classica? Impossibile far ritornare quello spazio secondo le scenografie godute dal pubblico del tempo? Un ritorno in quella dimensione mistica e mitica appare dunque impossibile, nonostante il singolare magnetismo che quello spazio sacro può riuscire a dare.
Un groviglio di macchine moderne sulla scena non lascia intendere per quale arcano motivo la rappresentazione di un’opera classica, inscenata in un teatro classico, non debba mantenere le caratteristiche pensate per quel tempo. Se d’altra parte il testo viene rispettato, perché non si devono altrettanto rispettare la messa in scena, i costumi e l’impianto rappresentativo nel suo complesso? Le maschere? Anche le maschere.
Le sperimentazioni vanno fatte, non c’è dubbio, ma per questo ci sono i teatri adibiti, le Freibuehne, nel senso delle sale ad hoc, comprese quelle parrocchiali.
Ma su quello greco, e per la stagione teatrale dei classici greci di Siracusa, le sperimentazioni così come vengono eseguite ci appaiono una forzatura, una opportunità sciupata per appropriarsi finalmente delle stesse suggestioni di cui i greci di Sicilia al loro tempo godevano. Se quello è il luogo degli impazzimenti originali di Meda e l’opera rappresentata è stata scritta proprio per quelle pietre a semicerchio, scomode, butterate, sbilenche, non riusciamo a vedere il motivo per cui i costumi e le tecniche debbano essere alterate dalla sensibilità moderna e spesso con fantasiosa estrazione. Se il regista vuole esprimersi con linguaggio personale, si cerchi i luoghi deputati, ma non certo quello di Siracusa dove, è vero, si possono fare pure le sperimentazioni, ma in altri ambiti e in altri momenti e con altre finalità culturali.
Su quelle pietre muscose, col sole che picchia, tra olezzi e tanfi di ascelle, ogni anno cerchiamo di capire come doveva sentirsi un uomo classico a contatto con un’opera tanto sublime e impegnata, dentro i misteri e i contorcimenti del mito sulla scena col mare di fronte.
E se ci ritorniamo, annualmente, con l’idea di immergerci nella atmosfera che fu di quegli appassionati spettatori greci, alla fine della rappresentazione dobbiamo fare i conti però con un pizzico di delusione. Pare bizzarro infatti un Ercole in giacca e cravatta, invocare Giove o un eroe tragico aggirarsi fra marchingegni del terzo millennio.
In più, la luce del giorno sostituita dal buio, sfruttando la tecnologia. C’è da chiedersi: che bello c’è, se si esclude la sola suggestione del luogo? Se viene rispettato (non sempre) il testo, perché non rispettare anche la messa in scena così come quel teatro era goduto dai greci? Un mistero eleusino, per rimane in tema.
Eppure non mancano né i mezzi tecnici né quelli economici né la sapienza necessaria per ridare a quel teatro la su antica sacralità rappresentativa, quella che vuole e pretende quel teatro e la sensibilità artistica. Come allestivano le scene i greci? Come recitavano? Quelle pietre non esigono forse un tuffo nel passato anche nei costumi e nelle scenografie? La bellezza grande di quel teatro, pensiamo, vorrebbe che per qualche ora tutto ritorni all’antico, con una passione filologica che restituisca allo spettatore moderno una parte almeno di quelle atmosfere. Una struggente immedesimazione non solo nella vicenda narrata, ma anche negli scenari, i costumi, i climi.
Ci facciano meravigliare i registi contemporanei con una full immersion in quella civiltà che del teatro fece arte sublime e sacra. E facciano meravigliare le scolaresche che vengono a frotte a Siracusa, mostrando loro come quel teatro, con quegli allestimenti, quelle tematiche, quelle scene, così come al tempo erano concepite, riescano ancora a suggestionare le ultime generazioni.
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