Lo sapevamo già, purtroppo, da tempo. Non ne parlavamo, forse nascondevamo e dissimulavamo. Tutti però sapevamo e l’ultimo dato ce ne dà una dolorosa conferma.
Stiamo parlando del calo drastico dei dizionari di greco e latino registrato ultimamente dalle case editrici scolastiche. Una triste notizia che conferma ciò che da anni ormai si sta mettendo (sconsideratamente) in atto: l’allontanamento (o il taglio) dalle nostre radici culturali per avvicinarci (con atteggiamento quasi di sudditanza) verso le culture e le lingue (rispettabilissime) dei Paesi economicamente dominanti (almeno nel mondo occidentale).
Così l’Italia delle lettere, dell’arte, della musica e della poesia (in realtà anche del commercio, della finanza e della tecnica) sembra aver fatto rotta, in maniera drastica, verso la matematica, le scienze, la tecnologia, l’avanzata informatica, quasi obliando il suo passato (spesso glorioso) e aver scelto di adottare la mentalità e le lingue di quei Paesi che detengono il primato in questi campi. Solo così, si è convinti, il nostro Paese potrà mantenere un ruolo di prestigio a livello internazionale. Ma per raggiungere tale obiettivo occorre, allora, mutare mentalità e acquisire altri saperi, diversa conoscenza, differenti costumi di vita e (pur conservando la nostra) altre (un’altra in particolare) lingue. Nessun ruolo positivo possono ricoprire le lingue dei nostri ‘progenitori’.
Quindi, per non perdere il treno del futuro (ma quale sarà il futuro?), non è necessario guardare al passato e tanto meno studiare le lingue ‘antiche’ che hanno formato il nostro linguaggio e, anche, il nostro pensiero.
Insomma, in questa società tecnologia, basata sull’informatica e l’intelligenza artificiale, sembra proprio che non ci più posto (o ben poco) per il greco e il latino (e ugualmente anche per la filosofia e la storia).
Certo possiamo anche mantenere il greco e il latino, ma solo in pochi indirizzi e cercando di limitarli sempre di più, nella ‘quantità’ e nella loro ‘importanza’, perché, in fondo, non servono più a niente.
Questa la convinzione dei vari legislatori in questi ultimi vent’anni (ma questo disinteresse alle nostre radici linguistiche era cominciato ancora prima, con l’abolizione del latino nella scuola media).
Poco seguito hanno avuto i cori indignati di protesta contro questo lento ‘annientamento’ delle lingue classiche. Da anni i governi (qualunque governo di qualsiasi colore) hanno agito in maniera determinata e senza tentennamenti per ‘liquidare’ le lingue ‘morte’ e quindi, inevitabilmente, per creare una nebbia sul nostro passato e sulla nostra identità (chi siamo, da dove veniamo?).
Le difese appassionate di intellettuali e studiosi di ‘valore’ impegnati, in questi lustri, a convincere il potere sulla imprescindibile importanza dello studio delle lingue ‘classiche’ (e mai morte) nelle scuole, indispensabili per capire il nostro essere ‘occidentali’ e formare l’uomo e il cittadino del domani, sono state inascoltate. Il processo avviato, al momento, non conosce rallentamenti.
Non mi soffermerò ora sulle vibranti difese delle lingue ‘classiche’. Chi vive nel mondo dell’educazione e dell’istruzione le conosce (magari non approvandole) benissimo.
Altro non riesco a aggiungere. Prendo, malinconicamente, atto di questo irreversibile sfilacciarsi del filo del passato e posso solo auspicare da parte delle ‘Autorità’ un ripensamento, un sussulto di responsabilità che possa fermare o frenare questo distruttivo progetto ben preparato e da tempo avviato.
Che non si debba però mai arrivare ad una iscrizione funeraria! “Qui giacciono, solitarie, le lingue antiche, un tempo onorate ora completamente obliate”.
Perché oscurare la memoria e le ‘parole della memoria’ significa perdere parte del nostro essere, parte della nostra identità e, forse, compromettere il nostro divenire.
Andrea Ceriani
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