«Si trova bene suo figlio nella nuova scuola di via Paravia?». Una domanda che posta da una persona qualunque porterebbe a una risposta più o meno affermativa ma si fa diversa la questione se invece a domandarlo fosse un personaggio di cui in qualche modo sospettiamo o sappiamo essere non solo un semplice criminale, ma un mafioso.
Perché le domande dei mafiosi quasi mai sono vere e proprie domande e non tutti, anche tra quelli che sono chiamati a giudicare se una frase costituisca o meno una minaccia, sono sempre in grado di riconoscerle.
Lo ha spiegato bene Paolo Storari, sostituto procuratore della direzione distrettuale Antimafia di Milano.
Non a caso Storari tira in ballo la pragmatica, quella disciplina della linguistica che osserva in che modo e per quali scopi venga utilizzata la lingua.
«Se non teniamo conto di questo difficilmente riusciremo a capire la lingua dei mafiosi. Ebbene, la lingua della mafia è fatta di detti, non detti, codici, riti e frasi che nascondono una simbologia ben precisa rispetto a quello che si legge superficialmente. D’altronde anche i giuramenti nel corso delle affiliazioni sono in grado di restituire immagini perfino piacevoli e di impatto.
Tutto è codice, tutto è sacralità.
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Non ci sono frasi dette a caso. Pure quel «tutto passa» rivela che la vita scorre e appunto «tutto passa», pure il carcere, ma la ‘ndrangheta resta.
Le intercettazioni hanno rivelato le mille sfaccettature dei linguaggi mafiosi dove anche i silenzi, e in alcuni casi addirittura i fischi hanno una valenza precisa e codificata.
Tommaso Buscetta sintetizzava così lo stile della comunicazione made in cosa nostra: «gli uomini d’onore molto difficilmente sono loquaci. Parlano una loro lingua fatta di discorsi molto sintetici, di brevi espressioni che condensano in lunghi discorsi. L’interlocutore, se è bravo o se è anche lui uomo d’onore, capisce esattamente cosa vuole dire l’altro. Il linguaggio omertoso si basa sull’essenza delle cose. I particolari, i dettagli non interessano, non piacciono all’uomo d’onore».
Altra generazione di boss, hanno cambiato forse le strategie di comunicazione, anche se già nel corso dei primi processi approdati in radio prima e in tv poi i mafiosi si son anche ingegnati a trasmettere messaggi all’esterno. È successo anche con la musica, in particolare per la ‘ndrangheta e la camorra.
«Gli uomini d’onore molto difficilmente sono loquaci.
Tuttavia la lingua che costituisce l’ossatura della comunicazione quantomeno interna alle mafie non è cambiata poi molto. Sono per esempio rimasti i soprannomi e i messaggeri. “Nel 1992 a cavallo delle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio l’avvocato palermitano Cristoforo Fileccia, che difendeva Totò Riina il capo dei capi, tenne una conferenza stampa per dire che il boss era vivo e in Sicilia”. Anche in quella occasione Totò ‘u curtu’ trovò il modo migliore per rassicurare i suoi.
Oggi la lingua non rimane solo quella parlata e scritta sui pizzini, ma il mondo si è arricchito dei social media, a cui non rinunciano soprattutto le nuove leve criminali. Qui scorrono messaggi su messaggi in una sorta di «diario allarmante» utilizzato per tenere alto il morale dei clan e per informare tutti delle operazioni criminali in corso e concluse.
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