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Il voto incoraggia una idea competitiva della scuola (e della società), ecco perché piace molto alla destra

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Giorgia Meloni sta dicendo che, in caso di vittoria del centro destra, si farà piazza pulita delle norme in materia di valutazione degli alunni della primaria emanate nel 2020 e si ritornerà finalmente al voto numerico voluto dalla ministra Gelmini nel 2008.
Per la verità l’impegno che sta prendendo Meloni è tutto da verificare perché non è affatto certo che anche Forza Italia sia oggi allineata su questa posizione.

Certamente, però, la proposta della leader di Fratelli d’Italia piacerà molto a Giulio Tremonti che in una intervista rilasciata nel 2008 al quotidiano La Padania aveva ben sintetizzato il suo pensiero pedagogico sull’argomento: “I numeri sono una cosa, i giudizi sono una cosa diversa. I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione se tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri… Un terremoto? È misurato con i numeri della scala Mercalli o Richter. Il moto marino? In base alla scala numerica della ‘forza’. La pendenza di una parete in montagna? In base ai gradi. La temperatura del corpo umano? Ancora in base ai gradi. La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici. I numeri sono insieme precisi e semplici. Il messaggio che trasmettono è un messaggio diretto”.
In quella stessa intervista Tremonti spiegava che i giudizi al posto dei voti servono solo a creare “casino” nella testa di genitori e alunni e aggiungeva che il casino era iniziato nel 1968, sbagliando però clamorosamente di una decina di anni perché il voto, nella scuola elementare, venne eliminato solamente nel 1977.

Ma perché alle forze politiche di destra il voto numerico piace così tanto?
Lo spiega bene il pedagogista Cristiano Corsini (Università di Roma 3) in un suo post di poche ore fa.
“Che il voto sia ‘oggettivo e chiaro’ – scrive Corsini – è una delle bufale più nocive diffuse in campo educativo. In realtà non c’è nulla di oggettivo in una valutazione (figuriamoci in un voto che, numerico o meno che sia, ne rappresenta una delle peggiori sintesi). Quanto alla chiarezza, tutto quel che sappiamo prendendo (o dando) un 7 (o un discreto) è che esso è meno di 8 (o di buono) e più di 6 (o di sufficiente) e se vogliamo comunicare altro è necessario usare qualche descrizione”.

Volendo entrare un po’ di più nel merito del problema della valutazione bisogna fare alcune precisazioni.
“Esistono tre modi per valutare – spiega ancora Corsini – il primo è assegnare voti senza aggiungere altro o accompagnando il voto con vaghi riferimenti al lavoro svolto; il secondo è assegnare voti descrivendo i punti di forza e di debolezza del lavoro svolto e le azioni da intraprendere per migliorarlo; il terzo è descrivere i punti di forza e di debolezza del lavoro svolto e le azioni da intraprendere per migliorarlo senza assegnare alcun voto”.

Quale di queste tre modalità sia più efficace ce lo può dire proprio la ricerca pedagogica.
“Il primo modo – sostiene Corsini – non incide positivamente sugli apprendimenti, il secondo li migliora di poco, il terzo li migliora in maniera significativa. La cosa ha senso, perché tendenzialmente la presenza del voto distoglie dal riscontro analitico, incoraggia una visione competitiva (ho preso più o meno di Caio?) ostacolando lo sviluppo di una motivazione intrinseca”.
In altre parole, secondo il pedagogista dell’università romana “il riscontro descrittivo trasforma la realtà, mentre il voto la conserva così com’è”.
E, come si è visto, il voto incoraggia anche una idea competitiva dell’apprendimento e della scuola in genere.
Conclude Corsini: “Non è dunque un caso che il voto piaccia tanto alle destre, più o meno sintomatiche che siano”.