Non sempre lo svolgimento di un’altra attività durante il periodo di assenza per malattia può costare il licenziamento. Infatti, in tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata – la cui gravosita non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena – senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell’interesse dei datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, che con sentenza n. 15476 dello scorso 14 settembre ha dato ragione ad un lavoratore dipendente, assente per malattia a seguito di una distorsione alla caviglia riportata nel corso dell’attività lavorativa, che era stato licenziato perché sorpreso da alcuni investigatori incaricati dal datore di lavoro a lavorare presso il chiosco gestito dalla moglie.
A tale proposito la Corte ha più volte affermato che “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio”.
Nel caso in questione, però, l’infortunio e la conseguente inabilità temporanea assoluta emergono dall’esame della documentazione prodotta e non è stata contestata. E inoltre che le attività che il lavoratore era stato visto svolgere presso il chiosco della moglie, per un periodo orario ben più limitato e solo per un paio di giorni, avevano comportato un impegno per la caviglia meno gravoso di quello caratterizzante il lavoro “principale”, risolvendosi in condotte parificabili a quelle tenute di norma nella propria abitazione.
Spetta, dunque, al datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.
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