La tragedia dell’immigrazione è sotto gli occhi di tutti. Perché tragedia? Perché non c’è uno stop, se si pensa ad una risoluzione definitiva di questo fenomeno.
Immaginare, cioè, di porvi fine, in qualche modo, con muri, blocchi e quant’altro, è mera illusione. Resta la responsabilità di cercare di governarla. Non da soli. Perché, come sempre, i fenomeni o si governano o si subiscono.
E’ comprensibile il timore o la paura, ma si tratta di capire se sono reali o gonfiati ad arte. Sapendo che, per esperienza, se si alimenta questi sentimenti per fini elettorali o incapacità, poi si subiranno le conseguenze, mentre la complessità richiede studio, pazienza, condivisione.
Come ripeterebbe il vecchio Andreotti, in un video di trent’anni fa che sta girando proprio in questi giorni sui social, non si può vivere di soli slogan, i quali, come ha insegnato in queste settimane un generale, “sono modi per scrivere libri, non per risolvere i problemi”. Intanto, che piaccia o meno, la storia va avanti.
Nelle scuole italiane, ad esempio, sono 800.000 gli immigrati di seconda generazione presenti oggi. Con ragazzi che parlano la nostra stessa lingua, praticano gli stessi sport, si vestono quasi allo stesso modo, vivono le loro relazioni oltre le barriere che alcuni vorrebbero costruire. Il che non significa che sia tutto facile, che non vi siano contraddizioni che richiedono a volte anche interventi drastici. Del resto, come per ogni cosa nella vita. Ma deve essere scontato uno sforzo per sciogliere quelle contraddizioni, senza più alimentarle per fini elettorali, secondo diritti ma anche con doveri.
La scuola e la società, mi viene da dire, sono già avanti, più avanti di certo della politica.
E quando si dice scuola si dicono, ad esempio, due cose: conoscenza e, appunto, relazioni. Sul piano della socialità sarebbe importante che il mondo del lavoro, il quale sta chiedendo a gran voce personale che non si trova, costruisse una piattaforma per accogliere e formare queste persone, anche favorendo il recupero di immobili oggi abbandonati, in collaborazione con in comuni.
Dunque, problemi che vanno presi sul serio e pensati in modo costruttivo. Non dimenticando, per capire a fondo questo fenomeno, di studiare e capire le cause e le opportunità.
In seconda battuta, si tratta di imparare dall’esperienza, sapendo le conseguenze della gestione del fenomeno negli ultimi anni. Pensiamo ai CPR, cioè ai centri di permanenza per i rimpatri.
In terza battuta, avere chiara la stella polare, cioè l’art.10 della nostra Costituzione, cioè il significato di diritto d’asilo e il valore della dignità di ogni persona, cuore della nostra cultura occidentale, con diritti e doveri per tutti.
Infine, se gli sbarchi sono oggi molti più di ieri, forse la colpa non era delle ONG. Per ragioni che sono invece ben più profonde. Il problema, dunque, non è tanto il numero degli arrivi, ma come gestirli. Nei primi mesi di quest’anno, ad esempio, nell’area Schengen 500.000 sono state le domande di asilo presentate, di cui, mi pare, il 20% in Italia.
Qualcuno invoca i rimpatri. Ma sappiamo già che i tentativi sono sino ad ora falliti, dati alla mano. In particolare, si tratta di capire che questa misura non incide sul numero degli arrivi. E la pretesa deterrenza va contro la forza d’urto della storia di oggi. Per cui la tragedia resta sino in fondo una tragedia. Accordi con i Paesi nord-africani per frenare le partenze? Vediamo invece ciò che sta succedendo, perché questi leader sono autocrati, immolati al potere fine a se stesso, non al governo delle complessità.
Aiutarli a casa loro? Facile a dirsi, non sapendo cosa stanno comportando i nuovi colonialismi in Africa, o le guerre permanenti in varie parti. E qui ci sta il ruolo storico che l’Europa, che sia però tale, è chiamata ad assumere. Siamo purtroppo in campagna elettorale permanente, ma le responsabilità non ammettono deroghe speciali, in attesa del prossimo giugno.
Negli ultimi otto anni sono stati ben 48 i vertici europei su questi temi. Ma i risultati li vediamo. Sino a che ogni Paese si crede il centro del mondo non se ne verrà fuori. Sapendo comunque che i problemi sono gli stessi per tutti. Va superato quindi questo limite mentale e politico, perché i problemi di tutti richiedono soluzioni condivise. In poche parole, tutti parlano, ma in realtà non sanno cosa fare. Intanto la storia cammina.
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