“Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale…”. In quanti, tra coloro che hanno frequentato il liceo tra gli anni 60 e 70, sarebbero in grado di continuare a memoria? In molti, riteniamo. E i più giovani, diciamo i trentenni di oggi? Qualcuno, probabilmente, ma certamente nessuno tra i ragazzi e le ragazze attualmente frequentanti o diplomati da qualche anno. Imparare a memoria una poesia è, da tempo oramai, una pratica considerata inutile a livello didattico. Sarà davvero così? Imparare a memoria un testo è un’inutile perdita di tempo? Se lo chiede in questi giorni su Il Fatto quotidiano, Bruno Contigiani, giornalista, scrittore e fondatore dell’associazione ‘L’Arte del vivere con lentezza’. Dichiarandosi subito favorevole alla reintroduzione dell’apprendimento a memoria delle poesie, Contigiani si chiede se l’abbandono di questo esercizio non sia stato in qualche modo ‘colpa’ del Sessantotto che nel nostro immaginario è lo spartiacque, per la scuola e più in generale per la società, tra il vecchio e il nuovo. Ma per Contigiani, il ‘nuovo’ non ha fatto del bene, da questo punto di vista, alla scuola, facendo perdere il gusto della poesia, della recitazione, della memoria da conservare, ritrovare e trasmettere ai più giovani una volta diventati adulti.
Tra i nostri grandi intellettuali, spiccano – per le loro posizioni nettamente favorevoli all’apprendimento delle poesie a memoria – Italo Calvino e Umberto Eco.
Il primo, ospite nel 1981 in una delle puntate di “Vent’anni al Duemila”, in onda su Rai3, rispose così alla domanda del giornalista che gli chiedeva quali fossero, secondo lui le tre chiavi, i tre talismani per il Duemila: Imparare molte poesie a memoria: da bambini, da giovani, anche da vecchi. Perché fanno compagnia: uno se le ripete mentalmente. Inoltre, lo sviluppo della memoria è molto importante. Questa, per il grande scrittore italiano, la prima delle tre chiavi (se volete scoprire le altre due, l’intervista è facilmente reperibile in Rete…).
Viene poi Umberto Eco, che in una sua famosa lettera natalizia, esortava il nipotino a imparare ogni mattina qualche verso: volevo parlarti di una malattia che ha colpito la tua generazione e persino quella dei ragazzi più grandi di te, che magari vanno già all’università: la perdita della memoria. (…) La memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. (…) Quindi ecco la mia dieta. Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a noi, “La Cavallina Storna” o “Il sabato del villaggio”. E magari fai a gara con gli amici per sapere chi ricorda meglio (…). Fai gare di memoria, magari sui libri che hai letto (…). Sembra un gioco (ed è un gioco) ma vedrai come la tua testa si popolerà di personaggi, storie, ricordi di ogni tipo.
L’anno scorso, dalle pagine del Corriere della Sera, lo scrittore e critico letterario Paolo Di Stefano, si domandava come mai la scuola non coltivasse più questo esercizio semplice e portentoso, quasi magico, che Calvino collocava al primo posto tra le chiavi per il futuro, così come Umberto Eco, del resto: i due intellettuali consideravano la poesia a memoria una grande risorsa per l’umanità, una specie di pronto soccorso, una luce che si accende nella mente e ti dà più sollievo di un telefonino, addirittura un talismano per il futuro. Perché – si chiedeva Di Stefano – questa pratica è scomparsa dalle intenzioni degli insegnanti? Vecchia? Ardua? Anacronistica? Inutile?
Qualcuno tra i nostri lettori vorrà rispondere a questa domanda?
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