Nella scenografica Aula Magna dello storico Liceo “Torquato Tasso” di Roma si è svolto il 16 ottobre scorso il Convegno “Appello per la Scuola pubblica”. Tra i relatori Antonia Sani, Renata Puleo, Raul Mordenti, Alfonso Troisi e chi scrive. Organizzato dall’associazione nazionale “Per la Scuola della Repubblica”, il Convegno era stato preceduto da quello analogo di Torino del giorno precedente, e sarà seguito da altri sullo stesso tema, che avranno luogo in tutta Italia fino al 27 ottobre.
La Tecnica della Scuola ha intervistato la Professoressa Anna Angelucci, una dei relatori del Convegno (nonché presidente dell’associazione):
Professoressa Angelucci, durante il suo intervento lei ha parlato di “studente come startup”, e dell’apertura di un’epoca nuova che potremmo definire “capitalocene“. Ci può chiarire meglio questi concetti?
Il termine “capitalocene” è stato coniato dal filosofo Jason W. Moore, che ha scritto un libro sull’argomento, individuando nell’era biologica attuale, in cui noi stiamo vivendo, fenomeni di antropizzazione mai realizzati prima nella storia dell’uomo: infatti l’intervento dell’uomo (ed in particolare l’intervento del capitale, e quindi della produzione industriale) sulla natura e sull’ambiente sta raggiungendo livelli elevatissimi, e produce quindi conseguenze più profonde di quelle prodotte dall’ambiente stesso. Insomma, non ci sono più eventi naturali che modifichino l’ambiente tanto quanto sta facendo l’uomo in questa era capitalistica sfrenata.
Ora tutto questo apparentemente non sembra aver nulla a che fare con la Scuola, ma in realtà possiamo ravvisare elementi di contiguità ed elaborare ragionamenti proprio a partire da questo concetto. Viviamo in un’epoca in cui anche la scuola, come mai in passato, dev’essere asservita alle esigenze del capitalismo e del capitale. Quindi la Scuola non si deve più limitare (come è stato fino a qualche tempo fa) ad esser luogo di riproduzione sociale di sistemi in vigore nella società (e quindi anche il luogo di riproduzione sociale dei valori della classe sociale dominante); la Scuola dev’essere ora luogo di produzione di un nuovo modello di individuo, adattato all’ambiente circostante ed alle esigenze del capitale.
Ecco perché il concetto di “capitalocene” (che nasce in ambito biologico e poi si allarga ad una visione sociale del mondo contemporaneo) può essere un punto di partenza interessante per riflettere sulle riforme in atto nei modelli educativi e nei sistemi di istruzione.
Il Prof. Alfonso Troisi, psichiatra, ha contrapposto poco fa la techne alla gnosis, parlando dell’esistenza di questa contrapposizione anche nell’antico mondo greco, ed ha affermato che «non si può discutere di idee se uno non ha conoscenze». Lei farebbe propria questa affermazione?
Sì, perché essa rimanda all’attuale dicotomia conoscenze/competenze, su cui molti di noi stanno ragionando. Finché si tratta di sviluppare nei nostri studenti, attraverso lo studio delle discipline (studio che ovviamente dev’esser pluridisciplinare ed interdisciplinare), competenze legate agli argomenti che essi studiano e di cui appunto acquisiscono la conoscenza, il problema non si pone: è quello che gli insegnanti hanno sempre fatto. Chiunque di noi insegni qualunque materia, vuole che gli studenti acquisiscano certe conoscenze e contemporaneamente acquisiscano anche abilità pratiche e competenze, che possono essere di traduzione delle lingue straniere, di risoluzione di problemi, di scrittura dell’italiano.
Ma qui la posta in gioco non ha nulla a che fare con le competenze disciplinari. Qui stiamo parlando (non a caso) di “soft skills”: ossia parliamo di competenze (col termine anglofono che le indica) che il mondo produttivo — e quindi il mondo del lavoro, o meglio, il mondo dell’impresa, dell’azienda privata che si muove nel libero mercato — sta chiedendo ai giovani attraverso la scuola. Quindi qui stiamo parlando di una “pedagogia del capitale” che sta entrando nelle scuole e nelle nostre aule, e che agisce direttamente sui banchi di scuola fin dalla più tenera età. Parliamo di “competenze imprenditoriali” che devono esser certificate anche con i bambini dell’asilo!
Nella sua relazione lei accennava anche all’Homo oeconomicus…
Oggi non si può ragionare di scuola se non si ragiona in primis sul nuovo soggetto che la scuola deve produrre: cioè l’homo oeconomicus, che nasce sui banchi di scuola e che si configura come una specie di soggetto “autoimprenditore di se stesso” in competizione con gli altri e anche con se stesso; un individuo che sembra prender forma (fin da bambino e poi da adolescente) quasi come una startup. Rispetto a questo ovviamente gli insegnanti dovrebbero esprimere una posizione critica; mentre invece ci accorgiamo che — mai come ora — nella scuola domina il conformismo insieme ad una crescente adesione ai nuovi principi “educativi” dominanti.
Ora, il professor Troisi nella sua relazione al convegno ha parlato di conformismo su un piano scientifico. Essendo uno psichiatra, un medico, uno scienziato, egli giustamente ha collocato il termine — e ciò che questo termine significa — su un piano biologico, dicendo appunto che dal punto di vista biologico il conformismo è sempre stato il tratto caratteristico dell’individuo all’interno dei gruppi sociali. Ciò che noi oggi dobbiamo fare è cercar di capire come questo termine biologicamente fondato si stia traducendo storicamente nella società in cui viviamo e nella scuola (la quale fa parte della società in cui viviamo); come se il conformismo diventasse — da paradigma scientificamente individuato — un vero proprio dispositivo regolativo di tipo sociale e politico dei comportamenti umani.
Ecco, mi sembra che questo discorso sul conformismo (su cui peraltro già Gramsci fece importanti riflessioni 100 anni fa) oggi torni prepotentemente alla ribalta e sia un tema su cui noi attualmente — come docenti ed insieme ai nostri studenti — ci dobbiamo interrogare. Mai come ora è diventato necessario sviluppare una posizione antitetica a quella conformista: ovverosia un pensiero divergente, un pensiero critico, un pensiero (e una prassi, gramscianamente parlando) che vada contro ciò che la “pedagogia” capitalistica ci sta imponendo.
In questo senso lanciamo oggi da questo convegno un movimento di rifiuto: un movimento che si potrebbe definire con le parole del racconto di Melville “Preferirei di no”. «Preferirei di no» è non solo quanto dobbiamo cominciare a dire nei Collegi dei Docenti, ma anche ciò che dobbiamo cominciare a fare nella scuola: dire no, laddove ce lo consentono la nostra condizione di insegnanti e la libertà che ancora questa condizione di insegnanti ha nella scuola quando siamo nell’esercizio del nostro lavoro. La libertà d’insegnamento non è soltanto una libertà costituzionalmente garantita, ma è anche una libertà sancita persino nella legge sull’autonomia scolastica, la quale per esempio dichiara molto esplicitamente che opzioni metodologiche individuali o di piccoli gruppi sono ancora possibili nella scuola e sono tutelate dalla legge. Quindi noi dobbiamo infilarci in tutte le maglie che le leggi, le norme e i regolamenti aprono in termini di libertà didattica e di libertà culturale, e lavorare su questo per scardinare un conformismo che oggi si traduce in un’adesione inaccettabile ai diktat della “pedagogia” capitalistica: “pedagogia” che noi, come docenti, non dobbiamo assolutamente far nostra.
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