Per chi ama le litoti, potremmo dire che gli studenti italiani sono sempre meno preparati. La Tecnica della Scuola ne ha parlato anche pochi giorni fa: altissimo il tasso degli abbandoni scolastici (5% più di quanto richiesto dall’Unione Europea). Inoltre il 29,2% degli iscritti ai Licei non arriva alla sufficienza nelle competenze matematiche; e — quel che è ben peggio — il 17,7% non ha sufficienti “competenze alfabetiche”. E stiamo parlando dei Licei, non delle scuole professionali.
Nelle scuole medie del Sud la situazione è terrificante: non comprende ciò che legge il 47,5% degli adolescenti siciliani, la metà dei calabresi, il 50,2% dei campani. In netto peggioramento il livello di conoscenze scientifiche di base dei quindicenni.
A dimostrarlo è il Rapporto “SDGs 2019. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia”. D’altronde sono esperienza comune di tutti i docenti (persino nei migliori licei classici di Roma) le enormi difficoltà di troppi alunni nel coniugare i verbi, nell’analizzare una forma verbale, nel distinguere un nome da un aggettivo. In queste condizioni il lavoro dei docenti si fa improbo, nonché avarissimo di soddisfazioni: un’autentica fatica di Sisifo.
E non è difficile capire come, in mancanza di competenze linguistiche basiche, la capacità di comprensione e astrazione dei giovanissimi ne risenta in modo esponenziale, con le conseguenti difficoltà in ogni ramo del sapere (dalla filosofia alla fisica).
Le cause? Svariate: sociali, culturali, economiche, familiari. Tuttavia non è difficile constatare che un generale abbassamento del livello dei nostri studenti si nota anche tra i rampolli della buona borghesia: professionisti, avvocati, medici, magistrati. Anche perché tutti i ragazzi, indipendentemente dalla classe sociale, sono oggi letteralmente intossicati dalla tecnologia.
Ne parla il saggio Sazi da morire. Malattie dell’abbondanza e necessità della fatica dello psicanalista junghiano Claudio Risé. Il mito della tecnologia (e del suo potere salvifico e liberatorio dalla fatica) ha determinato un progressivo scollamento della mente adolescenziale dallo sforzo del ragionare e del trovare da sé le soluzioni ai problemi.
La versione di latino è difficile? Lo studente medio non prova nemmeno a cimentarsi con la sua difficoltà, e sceglie di aggirare l’ostacolo mediante internet. Senza accorgersi che, in questo modo, sta rendendo cronica (e patologica) la propria disabitudine all’uso dell’intelletto; e che ciò, alla lunga, genererà in lui senso d’incapacità e sofferenza psicologica.
La quale, in effetti, sta aumentando a dismisura tra gli adolescenti: nel 2013 l’Organizzazione mondiale della sanità ha pronosticato che entro il 2020 nei Paesi ricchi la sofferenza psicologica crescerà fino a riguardare il 20% della popolazione.
La psicologa Jean Twenge della San Diego State University, in uno studio pubblicato sul Journal of Abnormal Psychology della American Psychological Association, tratta diffusamente i danni indotti dall’uso ossessivo del cellulare su tutte le fasce d’età: in particolare sui nati dopo il 2000.
Troppa tecnologia, dunque. Eppure, tutti sappiamo quanto l’attuale Governo italiano — in perfetta continuità coi precedenti — spinga per una sempre maggiore tecnologizzazione degli interventi didattici; laddove, al posto della “tecnolatria”, sarebbe forse più educativo (in quanto controcorrente), tornare al libro e alla parola parlata.
Ma visto che ormai, sul piano delle affermazioni impopolari, abbiamo fatto 30, faremo 31: nella Scuola italiana bisogna tornare a considerare la promozione (pardon: l’”ammissione all’anno successivo”) un premio, e non un diritto. Una Scuola, che non fermi gli alunni quando questi non abbiano i requisiti per studiare in una classe ancora più impegnativa, non li sta educando, ma li sta facendo crescere nel vizio — tutto italiota — del senso di impunità. Col risultato che oggi gli studenti studiosi si vergognano di esserlo (anche perché rischiano la punizione da parte del branco mediante bullismo).
Se un numero crescente di studenti arriva nei Licei in condizioni di semianalfabetismo cronicizzato, è perché molti docenti delle scuole medie si sono arresi di fronte alla pressione ministeriale e genitoriale che li spinge a promuovere tutti, e possibilmente con voti molto alti. Motivo per cui, quando i quattordicenni (o tredicenni!) approdano alle Superiori, abituati come sono a prendere 9 non appena aprano bocca per dar fiato ai denti, scoppiano in lacrime se prendono un 6, perché convinti di “aver studiato tanto” argomenti che, a ben vedere, hanno compreso — nella migliore delle ipotesi — come li può aver compresi un registratore.
Lasciar liberi i docenti di valutare secondo scienza e coscienza significa, in ultima analisi, tornare a fare gli interessi dei discenti e della collettività. Perché si cresce con l’educazione, non con le caramelle.
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