Se chiediamo ai ragazzi, durante una lezione, cosa si aspettano dal futuro e dal mondo del lavoro, molti non sanno rispondere, non per mancanza di idee e di progetti ma per una sfiducia nella realtà. Se chiediamo cosa sono i diritti umani hanno bisogno di pensarci un attimo prima di dare una risposta che non sia vaga. Se chiediamo il perché di tutta questa evanescenza, rispondono che questo momento e quello che lo ha preceduto hanno avuto come comun denominatore una sola parola ricorrente: crisi. E se andiamo oltre, oltre l’ermeneutico valore dei punti di vista, ci accorgiamo che i giovani, per alcuni aspetti, sono stati additati come generazione ‘diversa’ dalla precedente, considerandola, sbagliando, superficiale in valori, in impegno, in pensiero critico.
Se si indaga, quindi, dentro i meandri della crisi i giovani trovano le parole giuste per descrivere i modi, non sempre ostili, di aggrapparsi ed ancorarsi ai sogni, alle idee, anche se non percepibili come fattibili. Hanno sogni che la scuola deve aiutare a fare emergere e supportare. Non si può considerare la realtà scolastica semplicemente come classi, come numeri, come ‘pollaio’, come babysitteraggio e, iconicamente e forzatamente, come azienda. Ci sono anime, sentimenti personali, bisogno di attenzioni. Energie in crescita, desiderose di conoscenze e di sapere, avidi di emozioni e di stupori.
Bisogna tornare, per chi lo avesse dimenticato, all’affettività della scuola, non perdendo mai autorevolezza.
Bisogna tornare agli esempi non alle parole. È necessario che la società non sia stracolma di ingiustizie e che il senso delle cose venga riconosciuto. Ci vogliono insegnanti che imprimano dei segni, che sappiano trasmettere, che leggano, siano informati, per poter essere credibili. I ragazzi riconoscono l’autorevolezza degli insegnanti dal loro sapere, non dalle loro parole bofonchiate e ripetute senza enfasi e per pura trasmissione. Bisogna ridare dignità ad un contesto che richiede sapere. È un ossimoro reboante l’invocazione di sapere se non presente nell’istanza stessa. Il sapere variegato contiene in sé nozioni, ma anche modalità, capacità di relazione, stabilità emotiva.
Bisogna che i concorsi, le assunzioni rispecchino le esigenze della scuola, il valore delle competenze e il sapere multiplo, invece, il reclutamento, negli ultimi anni, è stato sganciato da questa esigenza. Non si può, così, dal nulla, improntarsi insegnanti e non può essere un corso o pseudo tale di qualche centinaio di ore a garantire, a pagamento, di inserirsi in un sistema che permette, purtroppo, anche la raccolta punti. Non è un “postificio” da “occupare”, un posteggio per chi non ha trovato di meglio o un secondo lavoro.
Gli insegnanti esercitano una professione, senza per forza essere cesellata in un concetto missionario, sia sociale che remunerativo. È un lavoro che necessita riconoscenza e coerenza. Solo pochi hanno veramente tenuto conto della forza propulsiva che la scuola ha dovuto impiegare per imprimere nella realtà pandemica la sua essenza. E non tutti se ne sono accorti.
Ed è così…che con pochi ed esilaranti esempi si va avanti. Ed è così…che una buona parte degli studenti si perdono cammin facendo. Ed è così…che buona parte delle istituzioni perdono credibilità e tutti, genitori, società, individui non appartenenti alla scuola, si permettono di sbandierare la propria opinione non richiesta. La credibilità non trova più appiglio perché è venuta meno la forza di un pensiero solido.
E, per esempio, serve a ben poco istituire l’insegnamento di Educazione civica se non si è in grado di renderlo permanente e veritiero, siano essi insegnanti, istituzioni scolastiche e ‘politica’, forza pulsante di decisioni.
Ed è così…attraverso il ‘civis’ che una società si esprime e se non riesce a manifestarsi al massimo è perché il nocchiero non ha lasciato abbastanza segni.
Alice Titone
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