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In 5 anni tagli e riforme abbattono i posti dei precari del 40%, ma la loro spesa aumenta del 68%

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Nella scuola italiana nell’80% dei casi è il personale precario a pagare la crisi economica e gli effetti delle riforme taglia posti: tra il 2007 ed il 2012 il numero insegnanti, dirigenti e personale non docente a tempo determinato si è quasi dimezzato. E non certo per effetto delle immissioni in ruolo, visto che nello stesso periodo si è provveduto poco più che a coprire il turn over. Dei 124.292 posti tagliati nel comparto dell’istruzione pubblica, ben 93.730 hanno riguardato dipendenti non di ruolo. Tanto è vero che il numero complessivo di lavoratori con contratto annuale, sparsi per le circa cento province italiane, è passato da 233.866 a 140.136. I dati sono contenuti nel Conto annuale del periodo 2007 – 2012’, realizzato dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, sul quale Anief-Confedir ha realizzato un approfondimento di settore.
Per il sindacato, si tratta di indicazioni inequivocabili sul fallimento della politica avviata con i tagli draconiani Gelmini-Tremonti. Ancor di più se paragonate al decremento nello stesso periodo, decisamente più limitato, delle unità lavorative riconducibili al personale di ruolo: in questo caso, sempre nel quinquennio considerato dai tecnici del Mef, sono solo 30.562 i posti cancellati. Con i dipendenti a tempo indeterminato in forza al comparto Istruzione passati dai 903.753 del 2007 agli 873.191 del 2012.
La tendenza alla riduzione sensibile del personale si è registrata in tutta la PA. Col risultato che oggi, a fronte di circa 140mila dipendenti della scuola assunti a termine, la Ragioneria Generale dello Stato ha conteggiato altri 167mila precari in forza ad altri comparti (con presenze maggiori nelle Regioni ed autonomie locali, quasi 53mila posti, e nelle forze armate, oltre 39mila). La consistenza sul totale di precari della PA sfiora quindi la metà del contingente complessivo. Come rimane sempre alta la percentuale di comparto Scuola rispetto al personale di ruolo: attorno al 14%.
“Dunque quasi la metà dei lavoratori non a tempo indeterminato del pubblico impiego (circa il 46%) – spiega il Dipartimento della Ragioneria generale – è costituito da personale legato al mondo dell’istruzione in cui una quota di personale non stabile è necessaria a coprire le fisiologiche oscillazioni nel numero di cattedre che si formano ogni anno o per coprire le cattedre che restano scoperte, come nel caso delle sostituzioni per maternità, evento tutt’altro che raro vista la composizione di genere del comparto”.
Ma quanto ha guadagnato lo Stato da questa operazione? Nulla. Anzi ha incrementato la spesa per coprire le supplenze di oltre il 50%. Scorrendo sempre il documento prodotto dai tecnici di Viale XX Settembre, infatti, emerge che la “Spesa per il tempo determinato” nella Scuola italiana è passata dai 512,69 milioni di euro del 2007 agli 861,10 del 2012. Facendo quindi registrare – unico caso in controtendenza nella PA – un incremento del 68%, superiore ai 350 milioni di euro, rispetto alla spesa per le supplenze sostenuta cinque anni prima.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, “questi numeri confermano che la politica dei tagli all’istruzione e alla formazione delle nuove generazioni, iniziata con l’articolo 64 della Legge 133 del 2008, si è scagliata contro il personale precario. Con l’aggravante che non ha condotto ai risultati auspicati dal legislatore: quella spesa per il personale, che si voleva ridurre copiosamente, ha addirittura fatto registrare un importante incremento. Confermando che nella Scuola, dove comunque il servizio va garantito, la politica dei tagli dei posti di lavoro ad oltranza non paga: comporta disservizi ad alunni e famiglie, incrementa la disoccupazione e deprime l’economia generale. E ora si scopre anche inefficace per la riduzione dei costi. L’unica soluzione – conclude Pacifico – è quella di stabilizzarli”.