La sperimentazione metodologica messa in cantiere dal MIUR, consistente nella contrazione dei cinque anni delle scuole superiori in soli quattro, non è – come si sente dire – un puro e semplice escamotage per combattere la dispersione scolastica. E’ invece un progetto didattico ben preciso, il quale possiede due obiettivi.
Il primo è quello di adeguare il termine degli studi superiori a quello di molti sistemi scolastici europei, che asseritamente permetterebbero agli studenti stranieri di anticipare l’entrata nel mondo del lavoro rispetto ai nostri, con svantaggio di questi ultimi.
Il secondo è quello di snellire i curricoli (quelli che quando non imperava il didattichese si chiamavano programmi) riducendo la mole delle conoscenze a vantaggio (si intuisce) di “competenze” e “abilità”.
Si tratta di un progetto che serpeggia da almeno vent’anni nella scuola italiana, e per così dire serpeggia trasversalmente, come fanno certe varietà di vipere particolarmente velenose. Trasversalmente nel senso che è stato sponsorizzato sia dai governi di centrodestra che da quelli di centrosinistra, che però hanno rinunciato all’impresa di fronte alla valanga di contestazioni rivolte dai sindacati (per l’evidente calo di occupazione che avrebbe prodotto) dalle associazioni dei docenti (che ne mettevano all’indice il conseguente depauperamento culturale) e direttamente dagli insegnanti (per l’uno e l’altro ordine di motivi).
Non vorremmo che la calura intorpidente di questo agosto, unita alla trasformazione dei docenti in fellah tentata e in parte riuscita alla “buona scuola”, favorisse oggi la realizzazione di questo perniciosissimo piano, l’ultimo della serie intesa a smantellare quello che resta di buono nella nostra scuola.
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