Il Belgio, scrive Il Sole 24 Ore, è un Paese di migrazioni, dove diverse comunità si incontrano, europee o extraeuropee e quindi si sta puntando alla convivenza e alla integrazione delle differenze culturali o religiose. Il 60,2% della popolazione è di origini belghe, il 25,3% di origini straniere e per il 14,5% è difficile definire la nazionalità di origine.
Bruxelles è una città molto ricca, ma allo stesso tempo frammentata in sottogruppi, spesso molto chiusi tra loro, a seconda delle diverse nazionalità. Per le strade della capitale belga non è difficile notare il grande divario tra benestanti e bisognosi.
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Ciò che però colpisce è che a radicalizzarsi siano le seconde e terze generazioni, spesso residenti nelle periferie o nei quartieri più poveri che si intersecano con il centro della città. Un nome o un cognome assai comune e ricollegabile a una precisa appartenenza come Mohammed, spesso può determinare la mancata assunzione da parte del datore di lavoro che teme “problemi”.
Il livello di istruzione dei ragazzi originari di altri paesi è molto spesso bassissimo con grandi carenze e con una preparazione che non è finalizzata al mercato del lavoro, all’inserimento professionale. Inoltre i contratti di lavoro dei cittadini stranieri sono spesso molto precari.
Attualmente nel paese si discute se questa materia di educazione civica debba completamente sostituire le due ore di religione previste dal 1959 in cui ognuno aveva libertà di scegliere la propria religione. In alternativa si propone, per superare questa idea di mondi chiusi e separati, un’ora di storia delle religioni in generale e l’altra ora alla formazione interculturale. Un luogo particolarmente pericoloso per fanatismi e radicalizzazione è anche il carcere dove jihadisti vengono in contatto con altri e creano proselitismi pericolosi.
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