A differenza delle accademie e dei college americani, che si limitano all’insegnamento di circa 70 lingue, i cinesi hanno deciso di fare le cose in grande e nei prossimi corsi delle università hanno inserito corsi di lingue che attraversano il Medioriente, il Pacifico, l’Africa e l’Europa dell’est.
Così nei programmi figura il curdo, il maori, il samoano; ma anche il tigrino (che si parla in Eritrea e nel nord dell’Etiopia), il ndebele (Botswana e Zimbabwe) e il comoriano, che si parla nelle isole di Comore. Ogni lingua un Paese, o meglio, una comunità linguistica e culturale con cui il Dragone pianifica di intrattenere, nel futuro, intensi rapporti commerciali.
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La globalizzazione “modello cinese”, cioè l’iniziativaOne Road One Belt, che altro non è che un’enorme rete di scambi commerciali che vorrebbero attraversare Asia, Europa e Africa seguendo cinque direttive di commercio. Più o meno ricalcando il percorso e le dinamiche delle antiche vie della Seta. L’unica soluzione per comunicare con i popoli che incontreranno, che ammontano al 63% della popolazione mondiale, è imparare la lingua e conoscerne la cultura.
“Usare l’inglese e il francese significa perpeturare l’egemonia delle potenze coloniali”, spiega Sun Xiaomeng, preside della scuola di studi Asiatici e Africani di Pechino. I diplomatici, gli uomini d’affari e i loro intermediari saranno più interessati a chi “parla la loro lingua”.
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