Esiste un forte disallineamento tra la domanda di professioni tecniche e persone qualificate disponibili e con il know how richiesto in grado di coprire tali posizioni.
A lanciare il grido di allarme è Unioncamere, con dati che confermano come le aziende industriali italiane soffrono una ormai storica mancanza di tecnici qualificati, con oltre 100 mila unità di risorse richieste e non coperte, persone con le competenze necessarie, oltre il 50% delle richieste totali di professionalità tecnica necessaria.
La crisi dell’istruzione tecnica non è un problema solo della specifica azienda, ma questo fenomeno ha un impatto sulla competitività e sulla crescita del nostro Paese.
Una crisi che ha radici lontane, come riporta Agenda Digitale, già nel 2016 Romano Prodi in un articolo del Sole 24 Ore denunciò la mancanza di tecnici, supponendo la necessità di “un forte rilancio dell’istruzione tecnica, perché si era di fronte ad un vero e proprio dramma”. Di fatto gli istituti tecnici che avevano formato per anni la classe dirigente stavano già vivendo quasi venti fa una profonda crisi. La situazione oggi non solo non è migliorata ma forse è anche peggiorata.
Per Unioncamere questo disallineamento tra domanda e offerta di queste professioni ha una ricaduta di circa 38 miliardi di euro, tra disvalore creato nelle stesse imprese e la difficoltà di recruiting e quindi maggiori costi da parte di personale di HR. Oltre ad un valore economico, il mismatch ha ripercussioni anche sulla capacità di innovazione delle aziende stesse, che soprattutto per quelle piccole medie vuol dire ri-posizionarsi su settori industriali a basso valore aggiunto e su mercati tradizionali.
Diverse le cause che ha portato questo fenomeno ad acuirsi nel tempo.
Una prima causa, come riportato dallo stesso Romano Prodi, è la “mentalità dei genitori che erroneamente ritengono gli Istituti tecnici scuole di serie B”, cosa è cambiato oggi ? Veramente nulla, ancora adesso la maggior parte dei genitori del nostro Paese se un ragazzo prende un Istituto tecnico lo guardano come uno che non ha voglia di studiare. Oltre il liceo, il nulla per tanti adulti e docenti, mentalità e cultura da rivedere e aspetto su cui le istituzioni devono lavorare per ottenere una lettura diversa tra qualche anno.
Altra causa è legata all’annoso problema dell’organizzazione didattica di questi istituti, se in sostanza ha senso mantenerli cosi come sono adesso o ha senso avere un biennio in comune con tutte le altre scuole e un triennio fortemente specializzante. La mancanza di forte specializzazione e di esperienze sul campo non consentono di avere tecnici pronti da immettere sul mercato.
In questa direzione ha fortemente aiutato il grande sviluppo degli ITS (istituti tecnici superiori), percorsi di formazione post diploma biennali e/o triennali condotti da Fondazioni create con la collaborazione delle aziende che mettono a disposizioni dei loro professionisti per fare da docenti. Si studia, quindi, con persone che lavorano in quell’ambito e si fanno tante ore dentro le aziende unendo teoria alla pratica.
Percorso corretto e indovinato non a caso gli ITS sono in crescita e garantiscono un posto di lavoro ad oltre il 90% degli studenti.
Così, come in questa direzione vanno i licei made in italy creati dal Governo Meloni, con una sperimentazione del percorso di studi in 4+2 anni, cioè liceo di 4 anni e a seguire due anni di ITS, con contenuti del programma di studi più flessibile e maggior correlazione e collaborazione col tessuto produttivo locale.
Una maggiore collaborazione tra scuola e lavoro è il tassello che può fungere da acceleratore e risolvere o colmare il gap tra domanda ed offerta.
Gli istituti tecnici vanno ripensati quindi con l’ottica di mettere a disposizione del mercato dei buoni tecnici, che volendo possono approfondire con gli ITS.
Lo sviluppo del nostro Paese passa anche per gli istituti tecnici.
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