Dallo storico prof Salvatore Distefano riceviamo una approfondita analisi sulla strage di Capaci e una attenta riflessione sul ruolo civile svolto dal magistrato Giovanni Falcone ucciso con la sua scorta e la moglie dalla mafia il 23 maggio del 1992. La pubblichiamo volentieri e che fra l’altro chiosa: “Noi ricordiamo Giovanni Falcone, e tutti coloro che sono morti compiendo il loro dovere, con sincera commozione. Ma il dolore che proviamo in questi frangenti non deve far velo alla determinazione che continueremo a profondere nella lotta alla mafia affinché in futuro si possa vivere in un Paese dove la giustizia, i diritti individuali e collettivi, il rispetto della persona, la cultura e il lavoro siano a fondamento della democrazia”.
Ventotto anni fa, il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, sua moglie Farncesca Morvillo e tre uomini della scorta, furono vittime del terrorismo mafioso che, con una violenza terrificante, li fece saltare in aria a Capaci. E il 19 luglio dello stesso anno, una simile pratica stragista verrà usata in via D’Amelio, a Palermo, per uccidere barbaramente il giudice Paolo Borsellino e cinque poliziotti della scorta.
In quel terribile 1992 la Sicilia diventò lo snodo epocale del passaggio alla “seconda Repubblica”, a dimostrazione della centralità dell’isola in tutti i momenti decisivi della storia italiana: l’impresa dei Mille (1860), i fasci siciliani (1891-1894), l’occupazione delle terre dopo la Prima guerra mondiale (1919-1922) e durante la Seconda Guerra Mondiale (1943-‘44) e la reazione separatista, la strage di Portella delle Ginestre (1947), il milazzismo e il Luglio ’60, il terrorismo mafioso degli anni Ottanta.
La strage di Capaci, la prima di ben sette stragi tra il ’92 e il ’93, fu voluta dalla “cupola mafiosa” (Riina, Provenzano, Messina Denaro, Bagarella, Brusca e altri) perché il “pool antimafia” di Palermo, diretto dal giudice Antonino Caponnetto, aveva cominciato a colpire duramente gli interessi e le cosche mafiose palermitane e siciliane, soprattutto dopo le uccisioni per mano mafiosa di Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e Giuseppe Fava, che si erano sacrificati all’inizio degli anni Ottanta per contrastare l’assalto mafioso allo stato e alla società civile.
La borghesia mafiosa aveva prevalso sia per l’uso della forza, sia perché aveva avuto la capacità di esercitare una grande egemonia, che le aveva procurato un consenso diffuso in tutti gli strati della società e aveva pervaso la società civile nel suo insieme, soprattutto i ceti popolari.
Bisogna, dunque, sconfiggere la “cultura mafiosa” dei “dis-valori”, del “sicilianismo”, dell’”identità regionale”, che propaganda queste concezioni per mantenere il tradizionale assetto di potere nell’isola.
In particolare, bisogna sconfiggere qualsiasi forma di sicilianismo che è servito storicamente come collante ideologico per rendere subalterno il popolo siciliano, sicilianismo che ha predicato sempre l’idea che non bisogna tener conto delle differenze sociali e delle contraddizioni di classe, che bisognava unirsi in un abbraccio regionalistico avendo come nemici tutti quelli fuori della Sicilia. Il compito del sicilianismo è stato quello di ricomporre artificiosamente i conflitti di classe in nome di una superiore (?) unità; per questa via si è giunti poi a una visione vittimistico-apologetica che impedisce che si individui nel sistema di potere mafioso la forma del dominio e, dunque, non si permette di cogliere la causa essenziale dell’arretratezza nella quale l’isola si dibatte. E così il sicilianismo è riuscito ad “unificare” sotto la sua egida l’intera Sicilia, tenuta insieme, a suo avviso, da un destino comune, ma costantemente tradita dalle forze esterne sempre ad essa avverse. Il sicilianismo, infatti, richiama l’esigenza di un’alleanza “solidaristica” e acritica; in tal modo, si sostituisce al criterio ordinatore dell’economia, delle classi e della dialettica della società civile, quello del territorio basato sulla comunità, sul sangue, sulla tradizione siciliana, che peraltro viene staccata artatamente da quella del Meridione.
Falcone e Borsellino con le loro inchieste non davano tregua ai mafiosi e ai loro complici, – politici, affaristi, apparati deviati, associazioni segrete -, che da decenni avevano esercitato un enorme potere in Sicilia e da ultimo stavano allungando i loro tentacoli sul resto dell’Italia.
Con la loro azione, i giudici palermitani e la popolazione siciliana che li sosteneva, soprattutto i giovani, volevano cambiare radicalmente le istituzioni e la società, da troppo tempo sottomesse a un sistema di potere dominante che aveva portato la Sicilia, e l’Italia intera, in una condizione drammatica. Avevano compreso, peraltro, la profonda trasformazione della società isolana: la Sicilia non era più quella dell’immediato secondo dopoguerra, né quella degli anni Sessanta; era una realtà segnata dal fallimento dell’industrializzazione e dalla crisi dell’agricoltura, ferita dai guasti profondi di un sistema di potere che aveva prodotto nelle città l’avvento di una nuova mafia urbana feroce e senza controllo. Essi capirono che il punto dove l’Antimafia era giunta – e a quel lavoro dedicarono anni di passione e di intelligenza – non era più sufficiente per comprendere quanto stava succedendo a Palermo e in Sicilia; era sorto, infatti, un sistema criminale, economico, finanziario e politico, che rischiava di insidiare seriamente, per distruggerla, la stessa democrazia italiana.
Giovanni Falcone è stato uno dei maggiori esponenti, nell’ambito delle Istituzioni, che con più continuità e determinazione si è impegnato a perseguire l’obiettivo di liberare la nostra isola e l’Italia da un avversario mortale per la democrazia, per il progresso e la giustizia sociale perché più di ogni altro ha lottato con coraggio e determinazione contro Cosa nostra.
Salvatore Distefano
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