In un lettera al Corriere, una preside pone la domanda delle domande: “Vorrei rivedere i ragazzi del liceo, vorrei poterli incontrare – con tutte le norme di sicurezza possibili – per raccontarci questi mesi difficili e bellissimi che abbiamo vissuto. Dovrò farlo in un parco o in una piazza o in una chiesa o in una pizzeria magari. Ma nella mia scuola, che ha locali grandissimi e areati, che ha due ettari di orti e cortili, non posso farli venire. Perché?”.
Ma la preside continua: “Sono reduce da un dialogo con i miei alunni delle classi terze della mia scuola Secondaria di primo grado. Da lunedì discuteranno con i loro docenti l’elaborato che hanno presentato. Lo faranno in camera loro, davanti a uno schermo. Poi spegneranno il pc, usciranno con i loro compagni, andranno ovunque, al bar, al parco, in pizzeria. Ma c’è un posto in cui non potranno entrare, neanche uno alla volta: la loro scuola”.
I paradossi del paraocchi che vogliono vedere sempre la scuola esclusa dalla realtà, e non solo quella dettata dal convid19, ma anche da quella politica, economica, sociale e culturale. Una cittadella fortificata dentro la quale si insegna quello che è previsto dal ministero, tutto i resto deve stare fuori dal portone.
E col coronavirus, sta sembrando la stessa cosa: i ragazzi si incontrano fuori, vanno al mare, ai giardini, in giro per la città ma la scuola è loro vietata.
Solidarizziamo con la preside e al suo interrogativo ci associamo: perché a scuola no?
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