Di cosa il mondo ha più bisogno nel futuro: filosofi o ingegneri? Secondo Bill Gates: “La filosofia non può aiutare un genitore che ha perso il figlio per una grave malattia. A me la scienza piace, devo ammetterlo”. Tuttavia come si può seriamente pensare che senza il pensiero possa valer la pena di sponsorizzare la ricerca scientifica?
Oggi una ricerca sociologica, realizzare da Erin Cech, che ha intervistato 300 studenti in ingegneria di quattro università nel nord est degli Stati Uniti, sia prima che dopo la laurea, per comprendere il grado di coscienza sociale che ciascuno studente raggiunge, ha evidenziato che il passaggio da matricole a laureati è il passaggio in cui cala sensibilmente l’interesse verso il welfare pubblico e si diventa sensibilmente più cinici. O così pare.
Cech attribuisce questa “cultura del disimpegno” alla natura degli studi di ingegneria. I problemi non tecnici sono percepiti come irrilevanti nel processo di problem-solving. Ad esser precisi non si conoscono ricerche complementari in altri ambiti (come cambiano i laureati in materie umanistiche?) e pare solo confermare un pregiudizio diffuso, quello che considera l’ingegnere come un matematico insensibile al mondo sociale, e a un inevitabile futuro che appare sempre più simile alle rappresentazioni distopico-paranoiche della serie TV Black Mirror.
All’inizio di novembre Gates, in un’intervista al Financial Times ha commentato: “È più importante essere liberi di navigare su Internet o trovare un vaccino per debellare definitivamente la malaria? Io non ho dubbi”. Era una questione di priorità, era una questione filosofica: la libertà si raggiunge connettendo le persone tra loro o debellando le principali cause di morte? Knowledge economy o ricerche mediche?
Una cosa è sicura: Bill Gates non c’entra nulla con la cultura del disimpegno, né con l’idea di essere degli stronzi.
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