Qualcuno dovrebbe dire Galli della Loggia che il problema della scuola italiana non è l’inclusione – cosa c’è, o ci sarebbe, di più inclusivo che dare un’istruzione pubblica di qualità a tutti i futuri cittadini? – ma l’uso strumentale della splendida idea dell’inclusione per portare avanti lo smantellamento della scuola pubblica.
Insegnare a tutti i futuri cittadini la matematica e le lingue, o fargli scoprire la ricchezza del pensiero, delle scienze, della letteratura, ha un costo e richiede un grande investimento di risorse, a favore soprattutto degli studenti più in difficoltà, come i non madrelingua, se non si vogliono ridurre il disagio e le difficoltà soltanto a certificazioni burocratizzate che lasciano le cose esattamente come stanno.
Tra tante “riforme” dissennate che investono e stravolgono la scuola anno dopo anno, non ce n’è una che preveda ciò che è davvero indispensabile: avere degli adulti che possano dedicare più tempo, attenzione e affetto a persone in crescita che imparano soprattutto attraverso la relazione. Occorrerebbe prima di tutto ridurre il numero degli studenti in classi in cui ne sono stipati fino a 32-34.
L’idea invece che si faccia inclusione non insegnando più nulla, sostituire la matematica con le “life skills”, con un “orientamento” para-aziendalistico sempre più precoce, con i visori sulla faccia degli studenti in “ambienti di apprendimento innovativi” o con la burocrazia dell’ “e-portfolio” delle “competenze” non solo permette di tagliare la spesa pubblica ma crea una grande mangiatoia per “formatori” e affini, e una filiera di inutile e redditizia “economia dell’innovazione” (secondo la definizione che ne danno Laval e Vergne, nel libro Educazione democratica), che nutre degli enormi interessi privati anziché la crescita umana e culturale degli studenti, sempre più abbandonati a se stessi.
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