Il compito della scuola, è quello di creare condizioni inclusive riconoscendo prima di tutto le differenze, e cercando per esse gli adattamenti didattici ed educativi che renderanno possibile a tutti gli alunni di apprendere ed esprimersi secondo le proprie personali modalità. Perché l’azione didattica risulti efficace deve uscire dalla logica dell’uniformità per preferire un approccio plurale, che tenga conto delle diversità presenti in classe, che diventano ricchezza e risorsa per tutti. Una scuola inclusiva non si rivolge solo alla diversità portata dalla disabilità, ma anche a tutte le altre; viene
superata la visione dell’integrazione, che richiedeva all’alunno con disabilità di adeguarsi a un ambiente creato su misura per altre esigenze, diverse dalle sue (Pieri, 2012). L’ambiente educativo inclusivo permette quindi a ogni soggetto, “indipendentemente dalle sue specificità fisiche, psichiche, etniche o socioculturali” di trovare “le opportunità ottimali per sviluppare le proprie potenzialità, sperimentare l’autoefficacia e 9 arricchire l’autostima” (Calvani (ibidem).
Lo stesso autore aggiunge, in un altro testo, che inclusione significa “garantire a ogni soggetto il proprio diritto a crescere al massimo delle proprie potenzialità e nel fargli esperire il suo diritto di cittadinanza” (Calvani, 2014,
p. 32). L’inclusione così definita è certamente qualcosa di difficile da raggiungere e, osservando la realtà scolastica attuale, non si può dire che sia stata raggiunta a pieno. Permangono infatti situazioni che sembrano più vicine agli approcci tipici del passato. Se l’alunno con disabilità svolge una parte importante del proprio percorso scolastico fuori dalla classe perché non si sa come inserirlo nelle tematiche affrontate in classe allora si ricalca una logica separatista; se sono reali esigenze didattiche a determinare che in alcuni momenti non è possibile fare altrimenti, il fatto che alcune attività vengano svolte fuori dalla classe non significa che stia avvenendo separazione.
Come nota acutamente (Calvani) “l’inclusione non si identifica con il far stare tutti nella stessa aula per lo stesso tempo”: questa sarebbe una soluzione semplicistica che non terrebbe conto dei reali bisogni degli studenti. Se
ad occuparsi di adattare i contenuti è l’insegnante di sostegno da solo, la logica è più vicina a quella dell’integrazione, poiché esiste un modo di progettare e fare lezione, portato avanti dall’insegnante curricolare, che si adatta ai bambini della classe che non presentano disabilità, e la lezione così strutturata deve passare per le mani dell’insegnante di sostegno perché possa essere fruibile anche per l’alunno con disabilità. La logica inclusiva richiede ai professionisti coinvolti di lavorare insieme, progettando in modo coordinato le lezioni, prevedendo modalità diverse di svolgerle – ad esempio proponendo lavori di gruppo e stimolando l’interazione tra gli alunni – tenendo conto delle esigenze
degli studenti della classe, come richiesto e ribadito peraltro dalla legge 107/2015 e dal D. Lgs. 66/2017.
Fabrizio D’India
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